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La salvaguardia dello “stile” nella danza classica accademica

Nel silenzio di una sala prove, interrotto solo dal cigolio del legno e dal fruscio lieve delle punte, la danza classica continua a raccontare storie senza tempo.

Quando un gesto diventa solo un’esecuzione, e non più un’evocazione, qualcosa si perde. Non è la tecnica a svanire — quella oggi è affinata, analizzata, potenziata — ma lo spirito che ne guidava la forma. Parlare di stile nella danza classica significa interrogarsi sulla sua identità profonda. Non basta replicare le posizioni, rispettare le linee, contare i tempi.

Lo stile è ciò che trasforma un passo corretto in un passo vivo. È quel dettaglio invisibile che collega il danzatore alla sua Scuola, alla sua epoca, e soprattutto alla sua intenzione. Senza stile, la danza classica diventa una lingua morta: comprensibile, ma muta. Ogni scuola porta con sé una visione del mondo.

L’eleganza sobria della Scuola francese, la teatralità ampia di quella russa, il virtuosismo dell’italiana: sono varianti di uno stesso alfabeto, ma nessuna è intercambiabile. Salvaguardare lo stile significa quindi proteggere questa pluralità, non uniformarla. Lo stile si trasmette da corpo a corpo, da uno sguardo ad un gesto corretto in silenzio. Non basta guardare un video d’archivio per comprendere cosa fosse davvero una metodologia, una Scuola, o il lirismo di grandi interpreti.

Serve qualcuno che ne abbia respirato l’essenza, che abbia danzato sotto occhi capaci di leggere dentro il movimento. Oggi il rischio più grande non è la mancanza del sapere, ma la superficialità. L’archivio è pieno, i tutorial abbondano, ma la formazione profonda richiede tempo, ascolto e immersione. Salvaguardare lo stile significa difendere l’apprendistato lento, quello che non produce risultati immediati ma scolpisce l’anima dell’interprete.

Il repertorio classico è una biblioteca vivente. Ogni coreografia è un libro che va letto con intelligenza e rispetto. Non è sufficiente eseguire il Lago dei Cigni: bisogna capirlo. Ogni epoca ha riscritto quei passi a modo suo, ma il rischio è che oggi si ballino per essere visti, non più per comunicare. Lo stile si difende anche qui: evitando che il repertorio diventi un museo di virtuosismi, e restituendogli il suo valore narrativo e poetico. Un port de bras fatto con consapevolezza racconta più di cento fouettés.

La danza classica non è un contenuto da consumare: è un rito, un’arte che si plasma lentamente, che richiede dedizione e senso del limite. Lo stile non fa rumore, non impressiona subito. Ma è l’unica cosa che rende il balletto ancora arte. È il respiro tra un passo e l’altro, l’intenzione nascosta dietro un plié, il non detto che solo il corpo può pronunciare.

I giovani danzatori non devono essere solo esecutori eccellenti, ma interpreti consapevoli. Devono imparare a porsi domande: “perché questo gesto nasce così?”. “Cosa racconta, oltre la forma?”. Solo chi conosce il passato può danzare il futuro con verità.

La danza classica, se vuole continuare a parlare, deve custodire lo stile come si preserva una lingua antica: senza fossilizzarla, ma rispettandone la grammatica, i silenzi, i segreti. Perché è proprio lì, tra le pieghe dell’apparente rigidità, che si nasconde la sua libertà più profonda.

Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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