Vissuta per anni negli Stati Uniti, Ariella Vidach si forma artisticamente con Trisha Brown, Twyla Tharp, Dana Reitz, Steven Petronio, Steve Paxton, Bill T. Jones. Negli anni Ottanta inizia l’attività coreografica con la realizzazione di spettacoli che vengono presentati in tutto il mondo, sino alla creazione nel 1996 dell’Associazione e compagnia di danza Ariella Vidach – A.i.E.P., con la quale produce performance multimediali che affiancano alla ricerca coreografica l’interesse per il rapporto tra corpo e tecnologia. Tra le sue produzioni vanta diverse collaborazioni con importanti artisti, come Emil Hrvatin per la coreografia dello spettacolo Camillo Memo 1.0: costruzione del teatro per il Festival Teatri d’Europa del 1998 del Piccolo Teatro di Milano e per la versione drive-in dello stesso spettacolo presentata nel 2000 a Ljubljana nell’ambito del Festival Manifesta 3. Nel 2002 viene invitata in residenza al Theater am Gleis di Winterthur per la creazione di “Jolly”, coreografia commissionata dall’associazione Tanz in Winterthur e nello stesso anno “Buffers”, progetto di ricerca sulla figura del clown e del saltimbanco, è selezionato per partecipare alla prestigiosa vetrina internazionale “Monaco Dance Forum”. Momento fondamentale nell’attività della coreografa è il 2005, quando la compagnia inaugura la propria dimora stabile all’interno della Fabbrica del Vapore di Milano: nasce il DiDstudio (Danza Interattiva Digitale), centro di formazione, promozione e ricerca sulla danza contemporanea e atelier di sperimentazione e produzione artistica della compagnia dove Ariella Vidach svolge la sua attività di ricerca e produzione. Nel 2012 debutta con la performance interattiva “Bodhi.solo” e conduce un evento site specific, in collaborazione con Urban Experience, all’interno della mostra Body Worlds Carnem presso la Cattedrale della Fabbrica del Vapore. Vengono gettate le basi per la produzione del 2013: “Relais”, spettacolo per quattro danzatori che per la prima volta ridimensiona la presenza del mezzo informatico, dell’immagine e della sua proiezione e riporta l’attenzione sul corpo. Senza negare la storia della compagnia, che si è distinta nel panorama nazionale ed internazionale proprio per l’applicazione delle nuove tecnologie alla danza: in ottobre 2013 Ariella Vidach – AiEP è premiata al World Summit Award, Colombo, Sri Lanka, per il sistema interattivo Inaxyz. Ariella Vidach vive attualmente a Milano dove insegna alla Civica Scuola Paolo Grassi e continua la sua attività di ricerca e produzione presso il DiDstudio, nonché l’impegno nella divulgazione della ricerca tra danza e tecnologie interattive con il progetto NAO Nuovi Autori Oggi e Tec Art Eco, di cui è direttrice artistica.
Gentile signora Vidach, com’è nata la sua passione per la danza e chi l’ha indirizzata verso questa Arte?
Mi sono avvicinata alla danza in maniera non convenzionale. Non mi ha mai interessato la coreografia e, gli spettacoli di danza a cui avevo assistito, non mi avevano particolarmente colpito, al contrario, li avevo trovati anacronistici, privi di qualsiasi interesse. Ero invece molto attratta dal cinema, dalla letteratura ma soprattutto dal teatro di ricerca. Le figure di riferimento erano Grotowski, Gordon Craig, Brook, Barba, Bene, Barberio Corsetti che aveva fondato il gruppo Gaia Scienza. Una qualità ed un’estetica che apprezzavo. Trovavo molto interessante nel loro lavoro l’elaborazione di una scrittura scenica innovatrice e antinarrativa che privilegiava spazio, movimento e immagine, libera da ogni tentativo di rappresentazione. Per questo ho seguito senza esitare il consiglio di Giorgio Barberio Corsetti quando mi suggerì di partecipare ad un seminario di danza tenuto da Jeb Shawn, un’americana che viveva a Roma e che aveva studiato con Steve Paxton. Quella danza veniva definita “Contact Improvisation”. Era la fine degli anni Settanta.
La sua formazione coreutica inizia negli Stati Uniti, dove ha vissuto lungamente. Quali scuole ha frequentato e quali ricordi custodisce di quel periodo?
Ho partecipato a molti seminari organizzati dalla “School for Movement Research” oltre che affidarmi ad una pratica giornaliera della tecnica classica al “Peridance” con Joel Dabin. New York era straordinaria negli anni Ottanta. Moltissimi europei si trasferivano in quella città per studiare. Era una bellissima occasione di incontro e di scambio con altri danzatori americani ed europei. La vita era molto intensa ed era facile trovare lavoro e tutto costava veramente poco, una condizione perfetta per chi voleva studiare. Ma la situazione adesso è assai diversa. Gli affitti sono molto alti e penso sia più difficile trovare lavoro. Ci sono tornata diverse volte, dopo essermi trasferita nuovamente in Italia, ma devo ammettere che in questi ultimi anni è cambiata parecchio. Sempre unica e travolgente faccio fatica a riconoscere la New York degli anni Ottanta di cui continuo a conservare un bellissimo ricordo.
Poi ha deciso di seguire un iter multimediale e di ricerca coreografica con un occhio al corpo e alla tecnologia. Da dove nasce quest’esigenza?
Come già detto la mia esperienza con la danza è iniziata con la pratica della “Contact Improvisation” che non insegna passi o sequenze. Non devi imitare una forma come succede con la maggior parte delle tecniche corporee. Ci sono regole chiare da seguire, vincoli attorno al quale costruire un percorso. Più sai rispettare le condizioni più riesci ad eluderle. È una pratica che ricerca l’essenziale, il necessario, si distingue per il suo rigore. Al tempo stesso è improvvisata, senza codice apparente, irripetibile. È fondamentale saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi presenti, con lo spazio. È una danza che affina la percezione. Il risultato performativo è meno importante del processo che lo precede perché l’obiettivo vero è costruire una consapevolezza necessaria per creare l’interazione con gli altri. Questi i fondamenti indispensabili quando nel 1995 ho iniziato a produrre spettacoli con l’ausilio di software interattivi. È cominciato tutto dopo aver visto nel 1991 a Lugano, ”Computer e Arte” (a cui aveva partecipato anche Claudio Prati, mio collaboratore dal 1987) una mostra che presentava un’installazione dei “Giovanotti Mondani Meccanici” con il sistema interattivo “Mandala System”. Con questo software abbiamo realizzato il nostro primo spettacolo di danza interattiva “EXP” (1996) che proponeva una connessione diretta tra corpo e le scenografie immateriali realizzate da Massimo Contrasto. I movimenti delle danzatrici, ripresi da due telecamere posizionate sul palcoscenico, venivano elaborati in immagini attraverso una scheda digitalizzatrice e successivamente inserite nelle scene virtuali interattive. Con il “Mandala System” il corpo diventava una sorta di mouse vivente che, interagendo con le icone creava in simultanea i suoni e la parte visiva dello spettacolo. Gli scenari virtuali prendevano spunto da un’idea creativa di ri-mappatura dello spazio: la scena presentava un mix di realtà e di piani diversi; dai corpi reali agli oggetti immateriali proiettati su di un grande schermo, dove, oltre alle immagini delle danzatrici, prendevano forma parole bidimensionali, insetti da videogames, griglie grafiche, animazioni e firmamenti di punti che suonavano e si illuminavano al passaggio delle danzatrici. Il corpo rivendica il suo spazio per diventare l’unico e vero artefice di ogni cambiamento. Utilizzare tutto il bagaglio esperienziale costruito durante la pratica della Contact e metterlo a disposizione in una relazione movimento/sistema interattivo è stato un passaggio a dir poco naturale. Anche in questo caso era necessaria sensibilità e conoscenza del proprio interlocutore.
A suo avviso quali sono le sostanziali differenze, nel metodo d’insegnamento, tra la danza contemporanea di sperimentazione tra Italia e Stati Uniti d’America?
Negli Stati Uniti il danzatore classico è formato anche per danzare anche il contemporaneo. In Italia sembra non si sia ancora capito bene come fare.
Molte le sue creazioni di successo, a quale è più affezionata?
Sicuramente “Exp” lo spettacolo che mi ha permesso per la prima volta di esplorare la relazione con la tecnologia interattiva. Il progetto è iniziato nel 1995 e la sua versione definitiva è stata presentata nel giugno del 1997. Ci sono voluti due anni per elaborare tutte le scene. In quel periodo non era consuetudine come oggi per i giovani artisti avere opportunità di residenze. Non avendo la disponibilità di uno spazio ci affidavamo alla generosità di alcuni amici che avevano a disposizione studi di posa. Questo comportava una fase di allestimento e disallestimento per pochi giorni di prova. “Exp” è stato un progetto molto interessante che mi ha dato, nel corso degli anni parecchie soddisfazioni e mi ha iniziato al lavoro con le tecnologie interattive. Lo spettacolo “Exp” ha fatto da apripista, trattandosi di un esperimento (come sottintende il titolo stesso) dove la progettazione avveniva simultaneamente all’esplorazione di una tecnologia che era ancora in parte sconosciuta per noi. Ci siamo resi subito conto che era necessario trovare continuamente nuove soluzioni per superare i limiti della tecnologia stessa. È stato fondamentale creare e inventare. Intanto imparavo e consolidavo nuove teorie sul rapporto movimento e vincoli tecnici.
Tra tutti i giovani coreografi della scena nazionale ed internazionale chi reputa interessante dal punto di vista creativo e del linguaggio?
Sono una grande ammiratrice di Anne Teresa De Keersmaeker, apprezzo molto Alain Platel e Jerome Bel.
Il suo primo lavoro coreografico a cosa si ispirava e dove è andato in scena?
È andato in scena a New York nel 1982. Mi piace molto il cinema e ho utilizzato il format del lancio di un prodotto cinematografico come struttura per la mia prima creazione. Si è trattato di un assolo di circa venti minuti con immagini e citazioni cinematografiche.
A distanza di anni, a chi si sente di dire grazie, tra i suoi maestri per averla maggiormente supportata e aiutata?
Lo direi sicuramente a Joel Dabin, un insegnante di tecnica classica che ho seguito per circa sette anni quando abitavo a New York. Mi ha illuminato sui principi della tecnica fondamentali per tutte le tecniche di danza, non solo per quella classica o contemporanea. Lo ringrazierei anche oggi se fosse ancora tra noi perché purtroppo alla fine anni Ottanta se n’è andato come molti altri artisti e insegnanti a causa dell’AIDS, tragica sciagura per il mondo dell’arte e non solo, scoperta nella sua gravità solo qualche anno prima.
Che tipo di allieva è stata?
Sarebbe una domanda da rivolgere ai miei insegnanti. Ciò nonostante questo posso tentare di dare la mia versione ricordando di aver dato molto tempo e impegno perché l’argomento danza mi interessava naturalmente. Non ho frequentato una scuola che obbligava gli studenti alla presenza per cui appassionandomi allo studio prescelto davo il massimo della mia attenzione.
Attualmente lei dirige una sua Compagnia di danza. Quali sono i maggiori problemi riscontrati per chi vuole fare danza a livello professionale nel nostro paese?
È importante avere dei bravi interpreti capaci di tradurre il pensiero del coreografo, non solo per quel che riguarda la tecnica. Sono necessarie, oltre alla consapevolezza corporea altre doti quali la disponibilità a mettersi in gioco, l’apertura verso nuove visioni, l’intelligenza per comprendere e restituire la qualità richiesta, una personalità aperta e creativa. Sono caratteristiche non comuni e in Italia se un interprete possiede queste qualità è molto richiesto. Per questo è probabile che lavori con più coreografi. Se a questo aggiungiamo la quasi impossibilità per una compagnia italiana di impiegare un danzatore dodici mesi l’anno, si verifica spesso che per le date di spettacolo programmate, non si riesca ad avere il cast al completo. In questo caso o si rinuncia alla data (ed anche ad un’occasione di crescita per la compagnia) o si cerca un sostituto. Non serve sottolineare che queste circostanze penalizzano la qualità del lavoro rendendo le compagnie italiane meno competitive nel confronto con quelle europee.
Dove trova la fonte d’ispirazione per le sue coreografie/performance?
Mi piace ricordare una frase di Merce Cunningham che a questa domanda aveva risposto “un giorno osservando la caduta di una signora inciampata sul marciapiede”. Senza voler minimamente azzardare un confronto con il suo genio ritrovo anch’io molti spunti dalla vita di tutti giorni. La nostra quotidianità è fatta di azioni, di ritmo, di spazio. A volte è sufficiente un gesto, un modo particolare di osservare per essere ispirati. Mi piace il movimento delle cose e delle persone. Penso che ci sia molta affinità tra il nostro modo di muoverci e il nostro modo di affrontare i problemi dell’esistenza. Per questo con la danza mi confronto con le problematiche attuali relative alla politica al sociale. Credo importante pronunciarsi su questioni che riguardano il proprio tempo.
Nei suoi lavori cosa desidera lasciare in eredità agli spettatori?
Come spettatrice apprezzo molto di più un lavoro che stimola nuovi orizzonti di pensiero, che mi pone degli interrogativi, mi fa riflettere piuttosto che uno spettacolo ben fatto che mi intrattiene. L’arte deve destabilizzare, scuotere, stimolare una reazione, spingere ad un’osservazione diversa, per rendere l’uomo più consapevole, più attento al mondo che lo circonda. Spero di sollecitare con il mio lavoro questo desiderio.
Se non avesse fatto danza quale altra professione sentiva affine?
Mi sarebbe piaciuto diventare cantante oppure scrittrice. Sono però giunta alla conclusione che sia la professione a scegliere te e non il contrario.
Tra i tanti coreografi ed artisti del passato, c’è qualcuno che ha influito in maniera determinante sul suo stile di danza?
Direi che quello che mi ha influenzato più di tutti è stato sicuramente Steve Paxton. La prima volta che l’ho visto danzare è stata la prima volta che ho pensato che era esattamente quello che volevo fare. Mi ha letteralmente incantato.
Nelle sue creazioni la musica ha un ruolo fondamentale o predomina di più l’aspetto tecnologico?
La mia ispirazione non ha mai attinto dalla musica. Al contrario ho cominciato a danzare in silenzio riconoscendo nella musica del corpo l’ispirazione. Il movimento è musica. Quando ho scoperto che grazie alle tecnologie interattive sarei stata in grado di creare la colonna sonora con il corpo non ho avuto esitazioni e mi sono lanciata in questa fantastica avventura. È stata una grande scoperta poter comporre musica con il movimento, al contrario di quello che era sempre stato fatto in precedenza invertendo i ruoli per ridurre la distanza tra corpo e suono.
Nel 2005 con la sua Compagnia ha inaugurato una sede stabile a Milano, all’interno della Fabbrica del Vapore di Milano, dando vita al DiDstudio. Com’è nato questo progetto e come si è sviluppato nel tempo?
Il progetto è nato per offrire ad un pubblico giovane e sensibile alle nuove frontiere tecnologiche un luogo privilegiato per le attività di sperimentazione e di sviluppo delle competenze creative e compositive con l’ausilio dei nuovi media interattivi. Il progetto è stato definito DID Studio (Danza Interattiva Digitale) e inserito all’interno del complesso della Fabbrica del Vapore di Milano, operativo a partire dall’ottobre 2004 è diventato un centro di ricerca permanente per l’elaborazione di nuove metodologie e strumenti digitali-interattivi nell’ambito delle arti performative (danza, musica, performance e teatro). Nel corso della sua permanenza all’interno della Fabbrica del Vapore si sono aggiunte nuove attività come il progetto di residenza NAOCREA e manifestazioni pubbliche come il “Festival Nao Performing” giunto quest’anno alla sua settima edizione.
Cosa significa per lei “Danza Interattiva Digitale”?
La danza che utilizza software interattivi in grado di creare suoni e immagini in tempo reale.
Come si svolgono le vostre lezioni presso il centro di formazione e ricerca milanese?
Sono lezioni di Tecnica Release che durano 2 ore e 30. Iniziano con un riscaldamento a terra e si sviluppano attraverso esercizi di allineamento e di attraversamento nello spazio. C’è anche una piccola parte di improvvisazione.
Come si svolge quotidianamente una giornata-tipo al DiDstudio?
Ci sono lezioni serali di danza contemporanea, in alcuni weekend si ospitano seminari con docenti esterni italiani e internazionali. Nei periodi di produzione della compagnia (2/3 mesi) si svolgono le prove dalle 10,30 alle 18,30. Lo spazio accoglie in precisi periodi e da diversi anni artisti in residenza per i quali sono programmate prove e presentazioni a porte chiuse dei progetti elaborati durante le residenze. Una volta all’anno viene organizzato il “NAO Performing Festival” che ospita artisti affermati italiani e internazionali e i progetti realizzati nel corso delle residenze artistiche.
Celebri le sue collaborazioni con il Piccolo Teatro di Milano e tuttora con la Civica Scuola Paolo Grassi. Cosa apprezza di queste realtà e quale lavoro viene eseguito con gli allievi?
L’insegnamento è un’importante parte della mia attività e la collaborazione con la Scuola Paolo Grassi mi impegna restituendomi molte soddisfazioni. Mi piace tantissimo insegnare e osservare il cambiamento dei ragazzi nel corso dei tre anni di formazione. C’è rispetto nei confronti degli altri docenti che in maniera diversificata contribuiscono alla formazione di un interprete contemporaneo in grado di rispondere alle richieste del mondo del lavoro. Molti dei nostri ex allievi si stanno infatti affermando sia come coreografi che come interpreti. Con il Piccolo Teatro ho avuto occasione di collaborare all’interno di un progetto che aveva avviato Giorgio Strehler pochi mesi prima della sua morte invitando quattro giovani registi europei a realizzare una produzione a Milano. Uno dei registi selezionati, lo sloveno Emil Hrvatin che aveva visto un mio lavoro a Lubiana, mi aveva chiesto di collaborare alla realizzazione delle coreografie per il suo progetto di regia. Lo spettacolo si intitolava “Camillo Memo” ispirato alla figura di Giulio Camillo e il Teatro della Memoria.
Ora le dico qualche nome e lei mi risponde con un suo pensiero, giusto per far conoscere alle nuove leve i grandi nomi che hanno scritto la danza di ricerca a livello mondiale.
Trisha Brown?
Grande innovatrice del linguaggio.
Twyla Tharp?
Intelligente.
Steve Paxton?
Totalizzante.
Bill T. Jones?
Stimolante.
Dana Reitz?
Grande ispiratrice.
Steven Petronio?
Gioventù.
Quando si occupa delle audizioni per la ricerca di nuovi talenti da inserire in Compagnia, cosa l’ha colpisce maggiormente in un candidato/a?
L’interiorità, la sensibilità, la capacità di abbandonarsi al movimento, l’originalità.
In conclusione come si sente di definire la danza con le sue mille sfaccettature?
Un immenso piacere e una grande passione che ti lega alla vita.
Michele Olivieri
Foto di Mirella De Bernardi
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