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Mario Piazza: “La danza ci permette di evocare, pensare a colori, emozionare. E in “Ghetto” faccio proprio questo”

Ghetto Mario Piazza

Un Maestro in controtendenza. Un passato da danzatore, un presente da coreografo poliedrico: Mario Piazza lo è da sempre e prosegue in questo suo percorso unico. Un ottimista difficile da trovare, un creatore senza sosta, un Maestro che tocca temi sensibili nei suoi spettacoli, aggiungendo sempre qualcosa in più alla danza. Dal 25 febbraio al 2 marzo porta la sua ultima creazione “Ghetto” sul palco del Teatro dell’Opera: una pièce da non perdere, tutta da gustare e apprezzare.

“Ghetto” è la sua ultima creatura: ci può raccontare quali temi affronta e come si svolge la pièce?

Ho voluto fortemente questo progetto perché in un periodo in cui c’è un livello altissimo di recrudescenza, razzismo e omofobia in tutte le sedi sociali e anche all’interno del nostro stato, noi come artisti dobbiamo dare dei segnali molto chiari. Ho pensato di proporre Ghetto proprio perché è un manifesto, un inno alla gioia, alla normalità. Ghetto rappresenta la vita normalissima di una comunità, simile ad altri gruppi come i Rom, i neri, gitani. Con Ghetto parto dall’idea del ghetto ebraico e la sua vita quotidiana. La speranza, viene rappresentata da Tikvah e interpretata dall’étoile Gaia Straccamore che, nelle sue movenze, descrive appunto la speranza verso un domani migliore e un’aspirazione di gioia e coesione. Attorno alla Tikvah ruotano le vite degli altri della comunità ebraica, David e Sara, i giovani sposi: la vita normalissima, la gioia per la festa e i matrimoni. Ad un certo punto, però, si percorre un tragitto emotivo legato alla memoria: tra gioie e felicità incredibili, attraversa anche il dolore e la memoria, legata alla persecuzione, alla propria storia. È una storia simile a tante altre vite, per questo secondo me questo è un manifesto di normalità, un modo per conoscere l’altro attraverso le musiche (che qui sono di Klezmer e Goran Bregovic).

Le musiche di Klezmer sono nate nei ghetti d’Europa e considerate folk – ora con le nuove elaborazioni americane sono state “Klezmer jazzate” oppure hanno un sapore diverso rispetto a quando e dove vengono suonate. In origine queste musiche erano suonate da pochissimi elementi, quelli che si potevano portare scappando dal ghetto. Quando c’era una persecuzione, quindi, si scappava con gli strumenti più leggeri, chiaramente non un pianoforte bensì violino, clarinetto. Un’immagine ieratica del violinista che porta il suo strumento sul tetto, proprio perché deve fuggire. Da qui si prosegue attraverso le memorie, che vengono rappresentate attraverso un percorso emotivo di David e Sara, confortati dalla figura del Rabbino Capo, figura centrale della comunità. C’è anche un percorso di dolore legato agli eventi della vita nel momento in cui vi è la morte di qualcuno.

La danza ci permette di evocare, pensare a colori, emozioni ed è questo che faccio in tutte le mie opere.

Lo spettacolo poi prosegue con “Gelem Gelem”, assolo di David, sull’inno Rom: viene cantato per evocare le persecuzioni dei Sinti, dei ROM, ed è un canto di dolore dove si parla della loro storia. Questo signore, durante la pièce, si interroga e chiede :”Dove sono le persone con le quali danzavo, mi confrontavo, parlavo? Sono stati portati via dalla Legione Nera? Perché?” La Legione Nera in questo caso è un gruppo nazista che portava i ROM nei campi di concentramento. Ho voluto fare un po’ di storia universale, perché il ghetto rappresenta un muro, un luogo di circoscrizione ma anche un’isola di approdo su cui convergono le storie e le vite di moltissime persone.

Lo spettacolo cerca sempre di trovare la Tikvah: si inizia con un vento che porta via tutti, come sabbia nel deserto, come voler simboleggiare il vento che fa migrare le persone con un senso di grande rispetto nei confronti di chi migra. Io sono nato in Canada, la mia famiglia è emigrata: nel mondo ci sono tantissime persone che sono scappate e nessuno si chiede la ragione della loro fuga.

Del ghetto si parla – storicamente – un solo giorno dell’anno. Con questo suo spettacolo lei riesce a dare anche una connotazione positiva alla parola stessa.

Si parla della memoria del ghetto, che è sempre bene ricordare. Ciò che, però, io voglio fare con questi miei spettacoli è riconcentrarmi sui valori principali della vita: il rispetto, l’uguaglianza, la fraternità e l’accoglienza. Credo sia un elemento fondamentale per rincentrarci tutti e noi attraverso la danza, l’arte dobbiamo assolutamente farlo.

Ghetto va in scena nel tempio della danza e della musica classica. Come si sente a lavorare con così tanti ballerini e all’interno di un ente lirico così importante? 

L’ultima produzione che ho portato al Teatro dell’Opera è stata fatta tre anni fa: era una pièce sul futurismo con i danzatori del Teatro. Trovarmi ora con un progetto contemporaneo…un progetto diverso, che già ha fatto 500 repliche in tutta Europa ed è stato premiato a Londra come uno dei migliori progetti sull’argomento, è stato rappresentato dall’Opera di Sofia che l’ha portato in giro tra Germania, Bulgaria, Belgrado, Spagna ed ha avuto un notevole successo. Ritrovarmi con i danzatori dell’Opera è molto eccitante: proporre un linguaggio nuovo è sempre stimolante. Ho rifatto completamente le parti dei primi ballerini, gran parte dello spettacolo: sarà una prima assoluta. Tutti i miei spettacoli, comunque, sono sempre un lavoro in fieri, tendono sempre a svilupparsi: io sono dell’idea che mantenere ma anche andare avanti con i repertori. Non capisco per quale motivo, con un bagaglio di repertori incredibili, si perdano perle meravigliose che sono in scena soltanto per cinque serate. Io amerei tantissimo che molti teatri italiani, come fanno spesso all’estero, riprendessero ogni anno il loro repertorio e lo rifacessero. Credo che la creazione sia fondamentale per far capire il mio punto di vista. Anche grazie al mio collaboratore, il Maestro Ludovic Party, assistente alla coreografia, vogliamo che si capisca subito il significato e il tema. Io so esattamente dove voglio arrivare a voglio che anche i danzatori, con la loro sapienza artistica ed esperienza, portino lo spettacolo a crescere. Ogni danzatore con cui lavoro mi fa scoprire il suo mondo: ho scoperto una creatività bellissima, c’è un grande potenziale. In Italia, fuori e dentro gli enti lirici, ci sono danzatori stupendi.

Lei legge le risposte dei ballerini. Loro, invece, come rispondono alle richieste del poliedrico Mario Piazza?

Il mio modo di lavorare non permette troppi margini. Nel senso: io entro in sala e dall’inizio alla fine si lavora. Non c’è tempo per altre cose che non riguardino la produzione. In sala prove l’argomento principale è solo quello che sto facendo. La mia forma mentis non mi permette di lasciare nemmeno cinquanta secondi ad altro. Voglio, come i ballerini pretendono da me, che il lavoro sia ottimo e ottimale. E proprio da questi danzatori ho avuto delle risposte perfette, sono molto contento e soddisfatto. Aver accanto il maestro Party – che ora è all’Opera di Goteborg, Stoccarda – mi aiuta molto: il suo modo di lavorare è molto affine al mio. Lavorare insieme ci permette di portare tutti sulla stessa linea. Lavorare con 27 ballerini del corpo di ballo, i sostituti, il doppio cast è impegnativo ma entusiasmante. In aggiunta a tutto questo, ho trovato una grande collaborazione in un periodo di crisi con le maestranze del teatro: scenografo, costumi – abbiamo trovato delle soluzioni molto innovative. C’è stata grande sensibilità nell’argomento.

Le piacerebbe avere una compagnia stabile in grado di portare in tournée soltanto questo spettacolo?

Ho scelto l’inno Rom “Gelem Gelem” perché mi sento un po’ gitano. Se avere una compagnia significa massima libertà, decisamente sì. Avere restrizioni?! Allora no. Sono stato già direttore di compagnia: la struttura era sovvenzionata e, paradossalmente, l’ho lasciata quando mi stavano per raddoppiare il compenso. Alcuni miei colleghi mi hanno chiesto se fossi pazzo! Dirigere una compagnia mi  ha fatto, però, capire che non avevo tempo per creare e ricercare…ho preferito la libertà creativa, la libertà di muovermi. Io amo il gruppo ma non amo stare troppo in un posto. Ho lavorato con danzatori di diverse estradizioni e questo mi ha arricchito immensamente senza, però, farmi dimenticare che mi devo spostare per conoscere, creare, fare.

Ha sempre in mente l’idea di fare un convegno con tutti gli operatori del mondo della danza?

Tutto è nato da una mia brevissima dichiarazione pubblicata sulla mia pagina Facebook: in pochissimo tempo ho ricevuto feedback e risposte incredibili, positive. Un convegno a cui partecipano in tanti, dove è fondamentale la presenza e lo scambio tra coreografi e danzatori. Credo questo scambio non ci sia più. A me piace moltissimo e manca. Rifacciamolo, si può! Può rinascere un fervore artistico incredibile, c’è tanta gente brava. Le risorse non ci sono? Non ci sono più quelle vecchie, ma se ne possono trovare altre. Io ho la Tikvah che mi guida…sono ottimista e tutti dobbiamo esserlo!

Lei è molto legato ai temi sociali: perché?

Mai come adesso tutti gli artisti dovrebbero esserlo: è giunto il momento per confrontarci su ciò che sta succedendo e succederà. Io voglio parlare di diritti civili, omofobia, intolleranza religiosa, antisemitismo…c’è bisogno di questo. Non credo sia difficile: basta semplicemente volerlo. Ognuno di noi lotta per qualcosa. Quando lavoravo con Kemp, il maestro ci diceva: Andate in scena come se fosse l’ultimo vostro giorno di vita!. Per noi danzatori era uno shock, eravamo così giovani e pensare queste cose ci metteva solo tanta paura! Eppure aveva ragione: davamo sempre il massimo. Non bisogna pensare a cosa si lascia, bensì a fare ciò che far star bene.

Quale danzatore – che magari non c’è più – le piacerebbe danzasse “Ghetto”?

Nijinsky! È pur vero, però, che si parla soltanto di miti riferendoci soltanto a ballerina classici. C’è anche un mondo di danzatori contemporanei fantastici. Io farei danzare Martha Graham nel ruolo di Tikvah, lei sarebbe stupenda, oppure Alessandra Ferri. Io la adoro! È una diva classica che sa mettersi in gioco, acuta. Vorrei, inoltre, far danzare ballerine “agée”, un cast “gioconda”. Sarebbe sicuramente un ottimo modo di guardare al presente prendendo spunto da chi ha fatto la storia della danza. Una scommessa, ma nulla è impossibile…anzi!

Valentina Clemente

www.giornaledelladanza.com

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