Finalmente tutti i lettori appassionati di danza e balletto, oppure semplicemente incuriositi da quest’arte molto affascinante, potranno emozionarsi leggendo La Danza, la mia vita, l’autobiografia di una stella del balletto russo come Natalia Makarova. La celebre étoile scrisse la sua lunga e consapevole confessione in lingua russa, sebbene la prima pubblicazione, avvenuta nel 1979 con il titolo A Dance Autobiography, fosse apparsa in lingua inglese. Bisognerà attendere, infatti, il 2011, affinché la casa editrice moscovita Art dia alle stampe la versione originaria in lingua russa, ampliata però con approfondimenti inerenti alcune cruciali questioni artistiche.
Ora questa splendida autobiografia, da cui trapela l’elevato senso di autocoscienza critica palesato dall’autrice, finalmente è stata tradotta anche in italiano, grazie al lavoro di Marta Mele e con il sempre prezioso appoggio della casa editrice Gremese. Il mondo della danza italiana dovrebbe quindi considerare questo libro un pregiato regalo perché, oltre ad essere lo specchio della vita e dell’arte di una grande personalità artistica, è anche, e soprattutto, la proiezione diretta di quell’edificio di idee e concezioni sulla Danza e il balletto che la Makarova ha costruito, mattone dopo mattone, nel corso di tutta la sua brillante carriera.
Dalla formazione impeccabile ricevuta in patria, presso l’Accademia Vaganova di San Pietroburgo e il Kirov Ballet, al volo spiccato verso l’Occidente, dopo la sua defezione dall’Unione Sovietica nel 1970, la carriera della grande étoile russa ha dell’incredibile. Dopo Nureyev, anche Natalia Makarova ha vissuto il dramma di dover lasciare la propria terra d’origine per spezzare quelle catene che il potere aveva imposto alla sua vocazione artistica come a tante altre. Ha deciso così di spiccare un volo d’angelo che l’ha fatta librare magicamente di teatro in teatro. Ha raggiunto vette altissime ed è divenuta una stella mondiale.
La prima tappa di questo suo volo inarrestabile è stata l’ Inghilterra e, subito dopo l’America, dove nel 1974 interpretò per la prima volta La Bayadere. La Makarova, tuttavia, non si limitò ad interpretare magnificamente il suo ruolo, ma ne ricreò un intero atto. Non solo; si impegnò anche a preparare le giovani danzatrici dell’ American Ballet Theatre, plasmando su di esse lo stile classico a lei più congeniale.
Dal libro emerge fortemente lo spirito critico della ballerina. Analizza infatti quasi ogni ruolo da lei eseguito, in particolare Giselle e Il lago dei cigni, due ruoli in cui ha potuto esprimere in maniera eccelsa le sue incredibili doti tecniche ed interpretative. Poi si sofferma a riflettere sul balletto sovietico ed occidentale, non mancando di dilungarsi sulle illustri personalità con cui ha stabilito più forti contatti: Barysnikov, Nureyev, Bruhn, Dowell, Balanchine, Robbins e Tudor.
La Danza, la mia vita è un libro che non può assolutamente mancare nelle librerie di tutti gli adepti di Tersicore, perché apre spiragli accecanti su alcune stagioni basilari per lo sviluppo del balletto classico. Viene affrontato, ad esempio, il fruttuoso rapporto tra danza italiana e danza russa, uno dei crocevia più importanti per tutta la storia del balletto.
Tuttavia la bellezza di questa autobiografia non si sofferma soltanto sul suo alto contenuto artistico e critico. Perché, in conclusione, quando si tirano le somme, la ballerina Makarova lascia il posto alla donna, o meglio, alla mamma Makarova. L’étoile ci racconta infatti che la fine della sua carriera è stata decretata dall’arrivo, a 37 anni, di un bambino. Le ultime pagine si riempiono così dello sfogo della danzatrice riguardo alla penosa inconciliabilità tra due ruoli femminili: la ballerina e la madre. La Makarova ci ricorda infatti che nessuna delle grandi ballerine del XX secolo – la Pavlova, la Spesivceva, la Ulanova, la Selest, la Dudinskaja, la Pliseckaja, la Fonteyn…, ha avuto dei bambini. E conclude con alcune righe che rivelano forse una semplice opinione, anche se è facile percepirla come leggermente graffiata:
«Il balletto…Che arte essenzialmente ingrata! Nel teatro drammatico, nel cinema, nella pittura, quando si scrive ci si può concedere una pausa anche di metà anno per poi tornare al lavoro e iniziare a creare qualcosa di nuovo. Noi, invece, dipendiamo tragicamente e servilmente dal corpo, dalle sue abilità fisiche e dai suoi capricci, lo consumiamo, finché non abbiamo speso anche le ultime energie».
Leonilde Zuccari
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