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Roberto Casarotto, direttore artistico del Balletto di Roma, racconta i suoi progetti per la compagnia

Roberto Casarotto

Dopo una serie di collaborazioni ed esperienze all’estero, e dopo l’incarico di responsabile dei progetti danza internazionale del Festival Operaestate di Bassano del Grappa, Roberto Casarotto è stato nominato direttore artistico del Balletto di Roma. Lo abbiamo quindi intervistato sulla sua visione della danza e progetti futuri della compagnia, riguardo alla quale ci ha svelato il nome del terzo coreografo associato e una collaborazione importante

Come nasce la collaborazione con il balletto di Roma?        

Nasce dall’incontro con il direttore della compagnia romana a Bassano del Grappa durante il Festival Operaestate la scorsa estate, e anche da una segnalazione di Theresa Beattie, divenuta un contatto comune dopo il progetto della compagnia del Balletto di Roma alla Royal Opera House, e che fece il mio nome parlando di operatori di danza. Che buffo che la segnalazione di un italiano parta dall’Inghilterra! 

Come nasce invece il direttore artistico Roberto Casarotto?

Ho un trascorso di danzatore, ma ho anche avuto la fortuna di incontrare figure professionali importanti che mi hanno permesso di sviluppare un network; rete che ha facilitato il mio passaggio dalla carriera artistica a quella organizzativa e di promozione della cultura della danza. Parallelamente a questo c’è stato un percorso di studi in ambito non artistico, e una serie di esperienze, come la borsa di studio del British Council, che mi hanno permesso di incrementare il mio bagaglio culturale…Ma soprattutto a muovermi è l’interesse nel dialogo tra culture e nazioni, per cui fin da subito ho imparato costruendo un tipo di progettualità a livello europeo.   

Parlando proprio di progetti europei, Lei è ideatore del progetto Choreoroam e direttore associato di Aerowaves tra gli altri. Come nasce un progetto europeo?

Per quanto mi riguarda nasce da un’idea, da una necessità, e quindi costruisco un progetto che risponda a un bisogno e a dei valori, degli obiettivi condivisi con le persone che lavorano nelle organizzazioni partner e con le persone che definiscono il percorso creativo… Che poi esista la possibilità che l’Unione Europea ci aiuti è certo qualcosa che facilita il divenire di un progetto; ma in alcuni casi, anche senza sostegni europei, le idee si sono comunque concretizzate e sono cresciute in ambito transnazionale.

Quali sono le differenze tra la danza italiana e quella straniera?

Prima di tutto forse dovremmo dire “danze italiane”: già il fattore geografico definisce diverse modalità di sviluppo, e passando dalla mia esperienza in veneto a questa di Roma mi accorgo di come ci siano tante identità diverse nella stessa nazione. Credo che in Italia ci sia comunque tanto lavoro da fare, molte situazioni sono comuni a quelle di altri contesti internazionali, ma c’è una tempistica che è particolare e non facilita lo sviluppo e l’adeguamento a una certa cultura della danza.

Forse c’è paura di osare?

Non so se sia paura di osare o mancanza di competenze; forse entrambe le cose: osare, secondo la mia definizione, è produrre un cambiamento costruttivo; ma bisogna anche avere le competenze per osare.

Parlando di competenze…cosa cerca in un coreografo?

Cerco la sua impronta digitale: l’originalità, la capacità di comunicare sia come persona nel momento in cui guida altre persone, sia con il suo lavoro verso il pubblico. Cerco qualcuno che sappia eliminare il superfluo, che sappia creare motivato da una necessità e da un’urgenza e che articoli un linguaggio coerente con la necessità che lo porta a creare.

Con “eliminare il superfluo” si riferisce alla conferenza recentemente tenutasi a Londra, nata da un articolo del Guardian che si chiedeva appunto “i coreografi hanno bisogno di editor?”?

Non solo. Eliminare il superfluo per me è anche evitare di costruire un lavoro pensando a compiacere il pubblico. A volte si vedono delle opere meravigliose, forti ed eloquenti così come sono, cui vengono aggiunti dei “fiori” non necessari. Perciò più che di un editor, credo che i coreografi abbiano bisogno di una preparazione adeguata al contesto e ai tempi. Io ho sperimentato il processo creativo nelle varie case della danza, dove c’è una cultura consolidata nell’ambito della ricerca, mentre oggi mi sto affacciando al contesto delle compagnie di repertorio e balletto, in cui le modalità di creazione sono costrette in termini di tempo e di economie. Per esempio, al Royal Ballet la settimana scorsa ho incontrato un artista che doveva creare un lavoro in due settimane avendo a disposizione un’ora e mezza al giorno per lavorare con i danzatori; mentre una coreografa come Yasmeen Godder ha a disposizione magari anche sei mesi per lavorarci. Sono mondi in cui ci sono tempi diversi e quindi in certi contesti l’approfondimento è spesso limitato dalle necessità.

Come lavorerà con i coreografi?

Io sono una figura di direttore artistico-curatore e quindi ho deciso di affiancarmi a coreografi associati. Per il triennio ho voluto tre coreografi italiani, e sono: Fabrizio Monteverde che ha una tradizione ormai con questa compagnia. Paolo Mangiola, che è un coreografo dalla giovane carriera ma che ha lavorato anche con Wayne McGregor e che sta studiando un linguaggio che usi i codici del classico in maniera contemporanea. E infine ho scelto Alessandro Sciarroni, con cui faremo un lavoro graduale che si svilupperà nel triennio. Lavoreremo così su una differenziazione del repertorio e della compagnia, che porterà a collaborare anche con artisti internazionali sotto vari aspetti e a confrontarsi con diversi linguaggi della danza.

Cosa cerca allora in una coreografia?

È vicino a ciò che ho detto del coreografo, perché le coreografie sono il riflesso di ciò che cerco in lui. Una coreografia oggi mi colpisce per il risultato; mi colpisce se scaturisce da una buona idea tradotta con un linguaggio coerente, se ha una presentazione che abbia una coerenza qualitativa ed è quindi danzata con sicurezza, se comunica con il pubblico. E se evita il superfluo, ovviamente.  

Come immagina la compagnia durante la Sua direzione?

Io spero di innescare meccanismi di crescita artistica, per tutto il team, per la scuola, per i danzatori e i coreografi, e verranno perciò introdotti programmi e opportunità di ricerca calibrate sui singoli. Vi svelo poi che faremo una coproduzione con il Cullberg Ballet. È una necessità, quella di collaborare con altre realtà, nata proprio col convegno di Londra di cui parlavamo prima; e questo progetto col Cullberg Ballet ci darà l’occasione di provare un nuovo modo di co-produrre gli spettacoli: la coreografia sarà coordinata da Deborah Hay, su musiche della compositrice Laurie Anderson. Il Balletto di Roma comincerà proprio a mettersi in dialogo con una realtà molto nota, e spero sia un inizio verso tante future collaborazioni.

Collaborazioni, e tournées internazionali?

Non solo tournée internazionali, perché la mia priorità è anche radicare la compagnia nel territorio in cui lavora; perciò ho in mente una serie di proposte per lavorare proprio col tessuto sociale in cui nasce e vive la compagnia. Spero poi che la compagnia possa raggiungere un pubblico eterogeneo, e soprattutto anche quello meno raggiunto attraverso un alto livello qualitativo e attraverso linguaggi adatti alle diverse tipologie di pubblico.

Un’ultima domanda…Cos’è la danza?

La danza è vita. E la danza può cambiare la vita delle persone; penso ad esempio al progetto Dance for Health and Parkinson da cui a Bassano si è sviluppato il Dance & Health with Parkinson. Ecco, qui capisco il valore che il nostro lavoro può portare nella società contemporanea.
Se potessi realizzare subito un sogno legato alla danza sarebbe infatti quello di farla praticare a più persone!

Greta Pieropan

www.giornaledelladanza.com

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