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Adriano Bolognino: “Il movimento come introspezione tra gelo e luce”

Behind-You

Adriano Bolognino vanta una carriera pluriennale come coreografo e danzatore, contraddistinta da una costante ricerca artistica che coniuga precisione tecnica e profondità espressiva. Formatosi in prestigiose scuole di danza, ha sviluppato uno stile personale che integra elementi di danza contemporanea, teatro fisico e una particolare sensibilità verso il corpo come strumento di narrazione emotiva. La collaborazione con la Compagnia Opus Ballet, realtà di rilievo nel panorama italiano della danza contemporanea, rappresenta per Bolognino un terreno fertile per la sperimentazione e il confronto creativo. Sotto la direzione artistica di Rosanna Brocanello, Opus Ballet ha sostenuto la produzione di Behind You, estratto da White Room, con il contributo di importanti istituzioni culturali quali il Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni, la Fondazione CR Firenze, la Regione Toscana e il MIC – Settore Spettacolo. La creazione ‒ in programma il 17 giugno 2025 al Festival Nutida ‒ si distingue per la sua intensa riflessione emotiva e la capacità di tradurre in movimento stati d’animo profondi, evocando l’“inverno dell’anima”. In questa intervista, Adriano Bolognino ci guida attraverso le motivazioni profonde, le scelte stilistiche e il significato simbolico della sua opera, rivelando come la danza possa diventare uno strumento di introspezione e resistenza emotiva.

“White Room” si presenta come un’indagine coreografica sull’inverno inteso non solo come fenomeno atmosferico ma come stato emotivo e psicologico. Può approfondire il processo creativo che l’ha portata a questa rappresentazione così complessa e stratificata?

Per quanto riguarda White Room, posso dire che è stato il mio primo progetto coreografico di una certa rilevanza, nonché uno dei più importanti. Tutto è nato in modo molto naturale, dall’idea di lavorare su uno stato d’animo specifico, collegato e ispirato a un quadro, ma, più in generale, alla tematica dell’inverno. Ho sempre sentito un’affinità molto forte e diretta con questa stagione, sia a livello personale che emotivo, per l’atmosfera che riesce a creare e le sensazioni che suscita. Il progetto si è sviluppato anche attraverso una ricerca sull’ambiente, sui colori e sui paesaggi tipici dell’inverno. White Room, essendo la mia prima vera creazione, mi ha spinto a esplorare questo tema con una prospettiva molto intima: la neve, infatti, non è stata per me un’esperienza vissuta direttamente durante l’infanzia o la vita, ma più un’immagine e una sensazione nate dalla mia immaginazione e dalla creatività, un mondo interiore piuttosto che un contatto reale. Ho voluto quindi approfondire questo immaginario, dando spazio a una dimensione più emotiva e simbolica, che ha rappresentato un punto focale e un centro intorno al quale è ruotato tutto il lavoro, offrendomi la possibilità di sperimentare con la qualità del movimento. Questo approccio è stato l’embrione della mia ricerca coreografica attuale. In questa sfida ho trovato uno spiraglio di luce, l’inizio di quello che oggi è diventato il fulcro del mio lavoro coreografico: il ritmo.

L’estratto “Behind You” esplora un “inverno dell’anima”, metafora delle sfide esistenziali e delle paure che ridefiniscono la nostra percezione del sé e del mondo. In che modo ha tradotto questa tensione emotiva in un linguaggio coreografico capace di comunicare universalità e intimità al tempo stesso?

Behind You mette in luce tutti gli elementi distintivi di White Room, di cui è un estratto particolarmente rappresentativo. Le tematiche principali vengono riprese e rielaborate con piccole variazioni e dettagli, in parte legati al lavoro svolto con l’ensemble. Tuttavia, proprio come in White Room, anche in Behind You il nucleo rimane invariato: si tratta di un duetto. Ho scelto di estrarre questo momento perché credo rappresenti la parte più intima e centrale dello spettacolo. Pur non essendoci veri e propri protagonisti, questo passaggio è come l’ultima soglia, l’ultima porta che si apre verso una possibilità di liberazione. Dopo tutto lo sforzo, ci troviamo di fronte a un “esercito umano” che si muove in un paesaggio innevato, attraversato da difficoltà emotive, fisiche e relazionali. Poi, improvvisamente, qualcosa si apre. È come se uno dei due danzatori fosse la via di uscita dell’altro, la sua possibilità di salvezza. Si crea così un’intimità che va oltre il legame umano: è una connessione con un’entità “altrove”, quasi un’anima ‒ propria o altrui ‒ che permette di superare quel momento di oscurità. In questa dimensione si accende una luce personale, anche in un paesaggio cupo, innevato, privo di colore. È la scoperta di una luce interiore che resiste anche nel buio dell’inverno, in atmosfere profonde, silenziose e introspettive.

La dicotomia tra il candore della neve e la presenza di una fiamma improvvisa è una potente immagine simbolica. Come interpreta questo contrasto nella dinamica tra vulnerabilità e resilienza all’interno della performance?

Questa domanda mi sta particolarmente a cuore, perché affonda le sue radici proprio nel mio primo lavoro, White Room. La parola “fiamma” ritorna spesso nel mio percorso creativo; non a caso, uno dei miei lavori più recenti si intitola Bruciare / Into Us. Questa fiamma è sempre stata presente, ed è tuttora al centro della mia ricerca coreografica. Chiedo spesso ai danzatori di alimentare la propria fiamma interiore per poi restituirla all’esterno, attraverso il corpo e l’emozione. È una tensione più emotiva che fisica, un impulso vitale che guida il movimento. Riguardando oggi il mio percorso con occhi diversi, mi rendo conto che questo concetto è sempre stato lì, nascosto nella composizione e scomposizione ritmica che attraversa tutti i miei lavori. Mi piace immaginare questa fiamma come qualcosa che pulsa, che ha picchi e cadute, che può spegnersi in cenere e poi rinascere. È una presenza viva, che mi permette di giocare con l’istinto del ritmo. Il materiale coreografico nasce spesso in modo spontaneo, senza troppe sovrastrutture: cerco di lasciare che la fiamma scorra libera, con le sue variazioni dinamiche e ritmiche, capaci di generare sensazioni sempre nuove nel corpo del danzatore e nella sua espressività emotiva. L’obiettivo è creare una fiamma costantemente attiva, che muta forma ma non si estingue mai. Una fiamma che diventa mezzo di comunicazione e di scambio: tra i danzatori e, soprattutto, tra i danzatori e il pubblico.

Nel Suo lavoro, il bianco assume una dimensione quasi materica e simbolica, che sembra espandere lo spazio scenico oltre i confini fisici per abbracciare una dimensione emotiva profonda. Qual è il suo approccio nel plasmare lo spazio scenico attraverso il colore e il movimento?

Nel mio lavoro, il bianco non è mai un semplice sfondo, ma una presenza viva, quasi materica, che amplifica la percezione dello spazio scenico. Questa scelta cromatica si lega profondamente al mio approccio coreografico, che si sviluppa su una base ritmica istintiva, non vincolata a una partitura musicale tradizionale. Il bianco, in questo senso, diventa una tela che assorbe e riflette il movimento, mettendo in risalto contrasti, rallentamenti, morbidezze, accelerazioni. Questi elementi ritmici e dinamici sono per me espressione di una “fiamma” interiore che chiedo ai danzatori di alimentare e far emergere, per governarla e lasciarsi governare. Così, anche lo spazio, nella sua nudità cromatica, diventa emotivamente carico: il bianco accoglie questa fiamma, la esalta, le dà respiro. La tattilità che ne deriva è sia fisica che emotiva ‒ è lì che il movimento incontra la materia. Per questo motivo invito sempre i danzatori a non separare forma ed essenza, ma a lasciar fluire dall’interno una dinamica che diventi scambio vivo: tra loro, con me, con il pubblico. In questo modo, anche un colore può diventare ritmo, emozione, vibrazione scenica.

Gli interpreti Gaia Mondini e Frederic Zoungla sono portatori di un’intensità drammatica notevole. Come ha guidato la loro interpretazione per ottenere una sintesi così calibrata tra espressività e astrazione?

Devo dire che, in particolare con gli interpreti Frederic Zoungla e Gaia Mondini, ma anche con molti altri danzatori della Compagnia Opus Ballet, sono entrato subito in sintonia. Li ho trovati come un foglio bianco, perché per me era la prima esperienza con loro. È stato uno scambio davvero molto naturale: sono stati davvero puri nel recepire la mia creatività del momento. Questo duetto, in realtà, all’inizio era stato danzato da un’altra danzatrice della compagnia, a cui poi è subentrata Gaia Mondini. Nonostante in seguito siano stati fatti altri lavori con la compagnia, i ragazzi hanno sempre cercato di rimanere fedeli alle partiture originali, anche se sono passati diversi anni. Quello che tengo davvero a sottolineare, riguardo ai danzatori, è proprio la loro capacità di non modificare troppo: mi piace ricordare le cose, i lavori e le sensazioni per come erano all’epoca. Anche se oggi, guardando White Room e Behind You, li percepisco come figli ormai cresciuti, che non rappresentano più al 100% la mia creatività attuale, vedo comunque tante tracce di ciò che porto ancora con me. È come se, attraverso una selezione naturale, lasciassi alcune cose indietro e ne portassi altre nello zainetto coreografico, per costruire progressivamente la mia ricerca artistica. È stato quindi un lavoro molto naturale che, negli anni, continua a custodire molti tasselli e dettagli che fanno parte ancora oggi del mio mondo creativo.

La danza contemporanea spesso si confronta con il rischio della sovraesposizione emotiva o dell’astrazione eccessiva. Quali strategie coreografiche ha adottato per mantenere un equilibrio tra la narrazione emotiva e la purezza formale nel suo lavoro?

Sicuramente non sono un coreografo che lavora sulla narrazione tradizionale, con personaggi e una struttura definita che debba per forza seguire uno schema preciso. Anche se i miei lavori sono spesso astratti, mi piace molto offrire ai danzatori e al pubblico delle “ancore di salvezza”: elementi coreografici che si ripetono, dettagli gestuali, musicalità, o addirittura sonorità che possono andare in contrapposizione con la partitura coreografica. Cerco sempre di fornire questi appigli per “chiudere un cerchio”, non necessariamente riportando l’inizio alla fine nello stesso modo, ma creando una narrazione interna alla creazione. Questo è particolarmente importante quando lavoro su pezzi lunghi e complessi, come le full-length, in cui mi piace trasmettere un mio messaggio o una mia sorta di narrazione che possa offrire al pubblico una possibilità di interpretazione. Al contempo, però, lascio sempre la libertà sia ai danzatori che al pubblico di costruirsi la propria storia. Chiedo innanzitutto ai danzatori di vivere ogni momento, ogni struttura, ogni gesto, ogni passo della coreografia nella maniera più libera possibile, come se fossero veri e propri “passi di danza”, permettendo così a ciascuno di interpretare la partitura con sensazioni autentiche, che non siano istantanee e rigide, ma sempre rigenerate e rigeneranti per chi danza. Amo anche lasciare al pubblico la libertà di vedere, immaginare e sentire ciò che vuole, così che possa uscire dallo spettacolo con un messaggio personale, un messaggio che scavi nel corpo, nel cuore, nell’anima, senza essere mai bloccato o limitato da una mia idea precisa o da una sensazione che rischierebbe di restringere l’impatto emotivo che arriva a chi guarda.

Il sostegno di istituzioni come il Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e la Regione Toscana suggerisce un interesse verso forme artistiche innovative. In che misura queste collaborazioni hanno influito sulla libertà creativa e sulle scelte artistiche di “White Room”?

Sicuramente, come ho già detto, White Room è stato il mio primo lavoro full-length. Avevo già creato uno studio per Rua da Saudade, ma non l’avevo mai portato a termine; quindi, White Room rappresenta davvero la mia prima coreografia completa. Per una compagnia è fondamentale avere dei sostegni importanti, soprattutto per potersi affacciare con convinzione al mondo della danza. Io sentivo un forte desiderio di creare un ensemble e di farlo all’interno della mia ricerca coreografica, perché percepivo che ciò fosse più congeniale alle mie caratteristiche artistiche. Naturalmente, avere accesso a questa possibilità non stato è semplice; dunque, è stato un grande privilegio poter contare sia sull’occasione offerta dalla compagnia, sia sui supporti che mi hanno permesso, da giovane coreografo – avendo iniziato molto presto la mia carriera – di confrontarmi con i miei desideri e le mie ambizioni. Oggi mi sento davvero fortunato: nel corso degli anni, numerose istituzioni, persone e artisti hanno creduto nella mia ricerca coreografica. Ogni nuova esperienza rappresenta per me un’avventura, un’emozione e un dono prezioso.

L’inverno, nel suo silenzio e nel suo gelo, viene qui rappresentato come un momento di crisi ma anche di potenziale rigenerazione. Come si manifesta questa dialettica tra desolazione e rinascita nel movimento e nella drammaturgia della coreografia?

White Room è nato, in realtà, in circostanze molto particolari. Ricordo che è stato quasi creato durante la pandemia, un periodo in cui abbiamo vissuto momenti molto difficili in sala prova, dovendo indossare le mascherine per un lungo tempo. Ci sono stati inevitabilmente dei piccoli freni e tante difficoltà: la paura, le limitazioni e l’impossibilità di muoversi liberamente hanno sicuramente influenzato la creazione. Questo ha contribuito a dare al lavoro una dimensione più cupa, quasi invernale, fatta di perdita — di relazione, di speranza, di identità, immersa in un paesaggio nevoso e nebbioso. In questo contesto, ho deciso di concentrarmi sulla parte più profonda e interiore degli interpreti, ma anche del mio vissuto personale e del mio immaginario in quel momento. Il lavoro è stato un percorso per trovare una fiamma, una luce di speranza e amore, un’occasione di possibilità per andare avanti. Il progetto è diventato così la ricerca di un luogo nuovo, una porta aperta verso un’altra possibilità per l’esistenza degli interpreti nello spazio, e allo stesso tempo il racconto del mio viaggio interiore e coreografico.

La sua poetica coreografica sembra indagare la fragilità dell’essere umano attraverso un linguaggio corporeo che oscilla tra tensione e vulnerabilità. Come definirebbe il ruolo della coreografia nel rivelare questi aspetti nascosti dell’interiorità?

Tutte le mie coreografie presentano sicuramente aspetti umani e sociali molto intensi. Sono sempre creazioni nate da ispirazioni diverse: immagini storiche, quadri, problematiche sociali, questioni emotive, interiori e personali. Vi è una relazione profonda con l’essere umano, nella sua forza e fragilità, anche in relazione ai diversi contesti storici e al rapporto con la natura. L’essere umano come figura di differenza: differenza tra possibilità, tra generi, e in tutte le sfaccettature che porta con sé. Per questo motivo, chiedo sempre ai danzatori di essere il più possibile liberi in sala, di non porre barriere e di assorbire il materiale per far emergere la danza all’interno del proprio corpo, della propria essenza. Senza maschere, senza freni, lasciandosi trasportare in un’altra dimensione. Questo processo serve a creare un’autenticità nel movimento e nell’interpretazione, per offrire una reale consistenza emotiva, nelle molteplici sfaccettature che ogni danzatore esprime con le proprie forze e fragilità. Confesso che mi piace moltissimo lavorare con la figura femminile, perché sento che nel rapporto e nel dialogo con il corpo femminile si esprime in modo forse più immediato una fragilità e una forza, che emergono poi nell’interpretazione delle danzatrici con cui collaboro. Cerco sempre di lavorare sul concetto di umanità, che si manifesta in modo molto forte nelle gestualità, nelle ritmiche e nello sforzo. Spingo quasi al limite il danzatore, proprio per liberarlo da blocchi emotivi; questo metodo mi serve come tramite nel mio rapporto con i danzatori, ma anche per veicolare questo messaggio al pubblico. È un lavoro che vuole suscitare emozioni intense, che si propone di non restare una semplice forma nello spazio.

Guardando al futuro, quali ulteriori dimensioni emotive o concettuali intende esplorare attraverso la danza, e come “White Room” si inserisce in un percorso più ampio della sua ricerca artistica?

Come dicevo all’inizio e in quasi tutte le domande, White Room è stato un lavoro molto importante e, ad oggi, un po’ superato rispetto a tutte le creazioni successive. Ho infatti realizzato diverse creazioni, sia come freelance con altri interpreti, sia per compagnie e teatri. Come dicevo, da White Room prendo sempre dei pezzetti, come da ogni creazione, che porto avanti nella mia ricerca coreografica. Se guardo però alle mie evoluzioni più recenti, c’è una certa immediatezza nel ritrovare delle chiavi che oggi sono dei punti fermi del mio lavoro, e che già White Room conteneva in parte. Naturalmente, il lavoro si è trasformato, si è arricchito nel tempo e ha mutato forma, pur rimanendo fedele a quell’essenza originale, perché ho sempre cercato di mantenere una coerenza con il mio essere e il mio istinto, coreografando tutto al momento. È stato bello ritrovarmi, ogni volta, non nel ripetere qualcosa di identico, ma nel vedere qualcosa di trasformato, cresciuto, cesellato, meglio organizzato e maturato. Questo processo rispecchia la crescita umana e artistica, e spero di poter mantenere viva questa fiamma per tutta la mia vita coreografica. Da White Room a tutto quello che c’è stato prima, dopo e che ancora ci sarà, voglio ritrovarmi sempre e scavare sempre più in profondità, nelle possibilità, nelle occasioni di dialogo con il pubblico e con i danzatori. Non voglio lasciare mai nulla al caso, né nulla in sospeso, ma provare sempre a mantenere viva una tensione attiva di questa fiamma, con le sue debolezze e le sue forze, sempre presenti e coesistenti.

Lorena Coppola

Photo Credits: Jesus Robisco

www.giornaledelladanza.com

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