Nato a Velletri (Roma), il coreografo Fabrizio Favale si forma nelle classi di maestri di danza classica e contemporanea del calibro di Denis Carey, Victor Litvinov, Sue Carlton Jones, Andé Peck, Roberta Garrison, Jeff Slayton, Betty Jones, Nina Watt, Irene Hultmann, Louise Burns e Alwin Nicholais. Vincitore di borsa di studio completa, partecipa all’American Dance Festival della Duke University in North Carolina (USA), dove lavora con le compagnie Doug Varone and Dancer e Mark Taylor and Friends. Tornato in Italia è danzatore solista in moltissimi spettacoli del coreografo Virgilio Sieni fino al 1999, anno di fondazione de Le Supplici, la propria compagnia di danza contemporanea. Con essa partecipa a numerosi eventi performativi, collaborando altresì con alcuni dei migliori artisti della scena coreutica italiana e internazionale, giungendo infine alla creazione del progetto Circo Massimo, in scena per quattro mesi (novembre 2015 – febbraio 2016) al Teatro Duse di Bologna.
I suoi primi passi nel mondo della danza avvengono in sala tanto nelle lezioni di danza classica quanto in quelle di contemporanea, in entrambi i casi dirette da maestri di grande fama. Quale di loro, se ve n’è uno in particolare, l’ha stimolata a sviluppare il percorso coreografico della sua carriera?
Senz’altro Jeff Slayton (Merce Cunningham Dance Company) quando negli USA mi disse “tu hai già la tecnica. Quand’è che inizierai a costruire qualcosa di meraviglioso?”. Rimasi gelato, ma capii che dovevo iniziare a cercare. Naturalmente sto ancora cercando. E poi direi l’incontro illuminante con Irene Hultman (Trisha Brown Dance Company). Avevo vent’anni, la mia danza, anzi addirittura il mio modo di vedere, cambiò radicalmente. Capii che avevo la possibilità di far sbocciare la mia danza secondo le peculiarità del mio corpo, anzi, che ogni corpo ha le proprie abilità che necessitano di sbocciare in modo del tutto personale. Ma soprattutto mi fece sperimentare che il dire del corpo si dispiega al di là del voluto: ciò che noi vogliamo può solo in minima parte intervenire nelle relazioni che instauriamo con la gravità, con la velocità, con l’architettura… Era chiaro che da lì in poi s’apriva un mondo tutto da scoprire.
Tra il 1988 e il ’91 corsi di perfezionamento e full scholarship per danzatori la spingono oltreoceano, portandola sin negli Stati Uniti. Poi ritorna in Italia per dare inizio alla sua carriera da danzatore. Quali differenze ha percepito tra l’una e l’altra esperienza di formazione?
Ritengo d’esser stato fortunato in entrambe le occasioni. Irene Hultman l’incontrai a Reggio Emilia, per esempio. …Ma era il 1991. Le cose sono cambiate. In Italia sembra non si dia più molta importanza alla formazione. Non si investe più nel rintracciare grandi maestri. Sembra conti molto di più la performance, direttamente, senza passare da una cultura e da una sapienza del movimento. Non appena i giovani s’avvicinano alla danza, gli viene fatto credere che possono fare subito un percorso autoriale, senza studiare, senza riflettere, senza scorgerne le necessità. Forse l’autodidattismo, nella sfumatura d’esotico che trascina con sé, è ciò che ci attrae (e confonde) di più.
Lavora per Virgilio Sieni come danzatore solista in una numerosa sequela di spettacoli. Quale di essi ha arricchito maggiormente la sua espressività corporea?
Avevo 21 anni quando ho iniziato a lavorare con Sieni. Dunque credo sia stato il percorso nella sua interezza a fare in modo che io potessi andare a fondo nelle mie capacità. Sotto lo sguardo attento di Sieni, naturalmente. C’è stato un picco, certo, fra i 24 e i 27 anni. Credo che fosse il ciclo dell’Orestea.
Successivamente, tra il 1991 e il ’94 sperimenta i suoi primi lavori coreografici. Che cosa è successo in lei a quel punto della sua carriera da comprendere che la coreografia sarebbe stata oggetto di totale dedizione?
Credo d’esser sempre stato un danzatore “inventivo”, per così dire. In realtà la decisione di andare a fondo nella ricerca nel campo coreografico è avvenuta più tardi, nel 1999. Si trattava di urgenza direi. Qualcosa chiedeva per sé attenzione e forma. Inoltre credo di essere uno di quei danzatori/fiamma, che bruciano tutto nel breve arco della prima giovinezza. Ho firmato il mio primo contratto a 17 anni (anzi, lo firmò mia madre!), e in poco più di un decennio avevo già incendiato e consumato tutto. La mia attenzione s’è dunque spostata altrove, a un riflettere e cercare nuove strade, per questo motivo, immagino.
Nel 1999 fonda la sua compagnia di danza contemporanea, Le supplici. Il nome è un omaggio alla tragedia di Eschilo e Euripide o è legato ad un’altra fonte d’ispirazione? In entrambi i casi, come mai?
Le Supplici resta un mistero anche per me. Certo mi ha sempre commosso la posizione del supplice che si inginocchia e abbraccia le gambe di colui a cui rivolge la preghiera.
Numerosa la lista di contesti performativi – italiani ed esteri – di cui la sua compagnia è ospite e/o in cui viene lodevolmente premiata: il progetto Mahabharata, la Piattaforma della Danza Balinese, the International Contemporary Dance Festival of Canary Islands, Spain e non da ultimo NID – Platform Nuova Piattaforma della danza italiana. Quale il prossimo traguardo da raggiungere?
Forse i traguardi sono del tutto secondari e imprevedibili, rispetto a un’urgenza di dare forma a qualcosa. Quando un oggetto prende forma, sono sempre molto soddisfatto. Ultimamente ho realizzato dei lavori brevissimi in alcune legnaie, qui, sulle prime montagne bolognesi, in cui friggevo delle uova travestito con una maschera ancestrale finlandese… Insomma avrai capito che non mi piacciono molto i traguardi!… Trovo molto commovente e definitiva una frase di Tilda Swinton quando dice: “ma io voglio una vita, non una carriera”.
La critica definisce lei e la sua danza in vari modi: si parla di “coreografo poeta” (M. Marino), di “forme edonistiche leggere e impalpabili” (C. A. Zapparrata), di “gesto rapido e leggero che addomestica il tempo” (M. C. Bizzarri). La poesia detta davvero la partitura delle sue creazioni o desidera lei stesso promulgare una nuova forma di poetica attraverso il corpo?
Quello che mi interessa nella coreografia è un’apertura verso ciò che ci lascia il maggior spazio di immaginazione possibile e al contempo ci tiene incantati come sotto ipnosi. Naturalmente ciò che incanta e ipnotizza me potrebbe risultare totalmente indifferente ai più. E va benissimo così.
Veniamo all’immediato presente: Circo Massimo. Un progetto artistico della durata di quattro mesi, in cui l’innovazione della scena di danza più contemporanea (stilisticamente e cronologicamente parlando) invade il palcoscenico di uno dei teatri più “tradizionali” di Bologna. Come crede che reagirà il pubblico in sala?
Credo che tutto il pubblico sia sempre e assolutamente pronto ad accogliere le novità, soprattutto quanto il tema è la danza. Penso che non ci sia affatto bisogno di recinti e tematiche che circoscrivano e indirizzino la danza a un pubblico piuttosto che a un altro.
Sia nel “contenitore” Mistery sia nell’Expanded alle sue creazioni sono affiancate quelle di altri grandi coreografi di fama internazionale. Da cosa ne è stata dettata la scelta?
Inizialmente la Direzione Artistica del Duse mi chiese alcuni miei lavori da presentare all’interno della Stagione. Ma dopo lo scambio di poche battute ci siamo subito resi conto che avrebbe avuto molto più senso riflettere in maniera più ampia, ricavando un’intera sezione dedicata alla nuova danza all’interno della Stagione classica. Occorre dire che questo gesto della Direzione Artistica di affidare l’invenzione di una programmazione a un coreografo è, a mio avviso, totalmente pionieristico. Sarebbe davvero una bella scommessa se anche altri teatri italiani proponessero iniziative sulla stessa traccia!
Concludo con una domanda sulle tre anteprime che propone nel progetto artistico bolognese. Seppur in tre diverse direzioni, i suoi lavori combinano il concetto geografico e quello psicologico del lontano, dell’inesplorato, del non-comune. Cosa vuole suggerire precisamente agli spettatori?
Se sapessi esattamente cosa voglio suggerire, penso che non avrei bisogno di fare alcunché! Scherzo. In verità la domanda ha una profondità tale che in un certo senso mi paralizza. Provo a rispondere aggirandola. Diciamo che per me la danza non riguarda affatto il mondano. E la coreografia, di conseguenza, non può occuparsi del mondo. O meglio, entrambe si situano nel mondo, certo, ma solo come piattaforma, per essere lanciate in un iperspazio senza destinazione ultima. Una piattaforma di lancio. Una Cape Canaveral! Che bisogno c’è di descrivere il mondo, le emozioni… se sono già qui, alla portata di tutti? Forse la mondanità non sta qui per risiedervi, ma per permetterci di scagliare qualcosa lontanissimo: una sagitta senza bersaglio, che non vuole tornare mai più.
Marco Argentina
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Fabrizio Favale © Ilaria Scarpa
Fabrizio Favale © Jürgen Hoge