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Di poesia, acqua e danza contemporanea: incontro con Carolyn Carlson

Carolyn Carlson-Soiree

“Pascal!” è questa la prima parola che sentiamo pronunciare a Carolyn Carlson entrando al Teatro Remondini di Bassano del Grappa, dove si è esibita nell’ambito di Operaestate. Noi stiamo sbirciando eccezionalmente le sue prove, lei si sta rivolgendo a uno dei tecnici, che deve essere preciso al millesimo di secondo con la musica. Perché se c’è una cosa sicura, è che Carolyn Carlson ha una visione precisa di quello che vuole creare e su come metterlo in scena, e infatti, dopo aver provato l’assolo Immersion che la vede interprete, aggiunge: “non applaudite, per favore, non andava bene”.

Precisa come se avesse un sguardo esterno che le permette di criticare il proprio lavoro, ma anche estremamente generosa: la devono trascinare via dall’incontro con i giornalisti (un incontro casuale, perché lei stessa non voleva lasciarci andare senza almeno due parole, e al quale eravamo presenti insieme a due colleghe, curatrici di blog di danza), lavora instancabilmente con i propri danzatori, e infine decide anche di incontrare il pubblico dopo lo spettacolo. 

Perché Carolyn Carlson vuole una danza che vada incontro al pubblico, e risponda a un’esigenza che il pubblico stesso ancora non sa di avere: “prima di tutto bisogna coinvolgere le persone, spesso spaventate nell’avvicinarsi alla danza contemporanea, perché tutti sono talmente abituati a farsi raccontare storie, che poi davanti a certe coreografie si chiedono dove sia la storia. Ma io credo che abbiamo bisogno di tornare alla poesia…”.

Tutto per lei parte dalla poesia, anche l’assolo per Diana Vishneva, alla quale come prima cosa ha dato delle poesie scritte dal padre del suo regista preferito: Tarkovsky. “Diana ne ha scelta una per poi dirmi che non poteva danzare una poesia. E io le ho detto: benvenuta nel mio mondo! All’inizio sarà anche stato difficile per lei, ma le piace fare passi avanti”.

E anche in Italia, dice Carolyn, la poesia non manca: “avete la storia, avete Roma, Firenze, Venezia, la Biennale, una città che cambia continuamente come Milano, e credo che nei miei progetti futuri ci sia ancora molto dell’Italia. Ho appena tenuto un workshop a Parigi e metà degli allievi erano italiani!”, un interesse, quello italiano per la danza contemporanea, che dal punto di vista del pubblico ha ancora strada da fare, ma che dal punto di vista artistico convince la coreografa, che elenca tanti nomi tra cui quelli di Raffaella Giordano, Michele Abbondanza e Simona Bucci, con la quale ha tenuto classi di danza contemporanea. E a proposito di classi, le lezioni, i workshop, sono fondamentali: “i miei danzatori studiano con me. Alla Fenice, prima di scegliere i danzatori abbiamo lavorato insieme per giorni” e per scegliere, a volte basta un’improvvisazione: “ovviamente cerco la tecnica, ma amo le persone che corrono dei rischi nelle improvvisazioni.”. Proprio per questo, nella compagnia tutti portano qualcosa di diverso, e per questo Carolyn Carlson lavora molto sugli assoli: “perché stare soli in scena è condividere qualcosa di sé”.

L’assolo Mandala, invece, nasce da un mistero: “è ispirato ai cerchi del grano. In essi c’è qualcosa di misterioso, che nemmeno con tutte le nostre conoscenze e tecnologie possiamo capire. Ma l’assolo si basa anche sulle tesi di Carl Jung, e sull’idea che prima o poi torniamo sempre al centro di noi stessi. Torniamo sempre da dove siamo partiti. Avete letto il suo libro sull’argomento? È fantastico! E Jung è un pittore anche. Abbiamo tanto lavorato con il light designer, perciò quando vedete lo spettacolo vedetelo da lontano, perché lui disegna con le luci i Mandala mentre Sara danza”.  

La cura per tutti i dettagli viene dalla sua formazione con Nikolais: “Devo moltissimo a Alwin Nikolais, che curava tutto: dalle luci ai costumi alla musica, e con cui sono cresciuta: lavoravamo molto di improvvisazioni per costruire insieme ai danzatori la coreografia. Così lavoro anch’io, e in Sara, che è la mia assistente coreografa, ho una grandissima fiducia. Certo negli anni la costruzione del mio lavoro è cambiato, ma ovviamente il tempo, lo spazio, la forma e le emozioni sono principi eterni, e valgono per tutti, non solo per me”.

Non un incontro casuale quello con Nikolais, come con tante persone della sua vita: “è quello che io chiamo sincronicità (ancora Jung, ndr), quello su cui si basano tutti gli incontri della mia vita. Ad esempio, è il caso della biennale: mi chiama il direttore e mi chiede se mi va di collaborare. Viene anche a Parigi e io gli rispondo di no, che non sono un direttore artistico, che io ho bisogno anche di una scuola e di una compagnia. E lui mi dice: va bene, facciamo così. Sono sincronicità che capitano, ma devi essere pronto. È come incontrare l’amore della tua vita: devi essere pronto. Quando costruisco gli assoli, io chiedo sempre ai danzatori di raccontarmi i loro momenti di sincronicità. Dopotutto, amo lavorare su un piano “cosmico”, non lavoro come faceva Pina – che ci manca tantissimo – né come Béjart o Cunningham… anzi, alcuni mi hanno detto che Béjart è il fuoco, che Cunningham è aria, Pina Bausch è la terra, e io sono acqua. E lo credo anch’io. Pensate a Pina, alla sua Sacre, al legame con la terra messo in scena…”. 

Non solo Nikolais e Jung, però, alla base dei suoi lavori: quando le chiediamo da dove tragga l’ispirazione, l’idea principale da cui partire con le coreografie, ci elenca una serie di esempi molto diversi: “oh potrei trovare ispirazione anche nelle sue scarpe! Arriva da qualunque parte. Ma sono una grande lettrice: sono fan di Jung, di Magritte in pittura, ma anche di Pessoa e Erri de Luca – conosciuto grazie a Sara Orselli. E poi adoro la poesia in generale, perché leggi un verso e poi lo devi rileggere, per la sua semplicità ed essenzialità. Sono anche cresciuta con la poesia di Bob Dylan. Ma, ad esempio, la mia creazione Now, che parla di chi non vive nel presente, nasce da un’esperienza in un hotel: scesa a colazione, mi sono accorta della musica orribile della sala, e ho chiesto di spegnerla; mi hanno chiesto perché dato che rendeva felici le persone. Non le rendeva felici in realtà, semplicemente riempiva il silenzio! Non credo abbiano capito la mia richiesta in hotel, ma da quest’esperienza è nata una coreografia che parla di non lasciarsi distrarre da troppe cose, e di vivere now, il presente”.

E di spunti da diversi argomenti e situazioni sono piene non solo le parole che ci ha rivolto, non solo le coreografie che ha portato in scena (il poetico All that falls, l’ipnotico e carismatico Immersion e l’energico Mandala, che è un crescendo coreografico ed emozionale), ma anche le sue poesie: come gli haiku della raccolta Brins d’herbe, che sono un modo per “ricomporre se stessi nel nostro qui ed ora” e anche “specchi che riflettono le cose per come esse sono” all’interno di un linguaggio essenziale, tanto caro all’autrice e alla coreografa.

Tra tanti riferimenti alla poesia, alla storia della danza e del teatro, tra tanto entusiasmo ed energia che la portano a vedere progetti futuri e a vivere il presente, c’è una cosa che colpisce più di tutte quando incontri Carolyn Carlson: i suoi occhi chiari. The Water Lady ti guarda dritto negli occhi mentre risponde, come cercasse dentro di te il suo nuovo spunto per una coreografia mentre ti contagia con tutta la sua energia.

L’energia di un’inarrestabile fiume in piena, di una fonte inesauribile di progetti di danza.

Greta Pieropan

Foto: Carolyn Carlson Company

www.giornaledelladanza.com

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