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Da New York allo Zelig, una carriera per il waacking e il voguing. Intervista a Barbara “La B. Fujiko” Pedrazzi

Da New York allo Zelig, una carriera per il waacking e il voguing. Intervista a Barbara “La B. Fujiko” Pedrazzi

 

Di origini modenesi, Barbara Pedrazzi, in arte La B. Fujiko, si approccia alla danza in modo del tutto eterogeneo, sperimentando e curiosando tra gli stili coreografici più disparati che altalenano tra la ginnastica ritmica e il balletto classico, tra la danza contemporanea e l’hip hop, fino a scoprire il waacking e il voguing in un viaggio a New York City nel 2008. Da quel momento, dedica tutta la sua carriera professionale a tali stili, perpetuandone lo studio e l’insegnamento della tecnica e dell’espressività, come anche l’approfondimento culturale e storico delle origini degli anni ‘70 e ‘80. I frutti di tale passione sono resi manifesti dalle tre realtà performative nate lungo il corso della sua carriera, ossia le Wawas, i Vambicj e il progetto artistico collettivo B-fuji, col quale irrompe nella scena artistica italiana e internazionale a pieno titolo e lustro, fino a raggiungere il grande schermo all’interno del cast del programma TV Zelig.

La tua primigenia formazione da ballerina si radica a Modena, tua città natale, dove hai la possibilità di approcciarti a svariate discipline coreutiche e artistiche, tra cui anche l’hip hop. Come sono stati questi primi passi nella danza e, soprattutto, nella cultura underground?

Come hai già anticipato, il mio percorso iniziale di formazione è stato assai eterogeneo: ho iniziato con la ginnastica ritmica, per poi passare alla danza classica, fino ad arrivare alla danza contemporanea. Dopodichè è sopraggiunto (a piccolissimi passi!) l’hip hop, verso cui mi sono approcciata con lo spirito super curioso di un’adolescente: seguivo le lezioni, partecipavo a eventi di ampio respiro commerciale, organizzati tanto nel modenese quanto a Bologna. Quando, poi, mi sono resa conto che al di là di questa profusione di danze solo a livello di “vetrina” esisteva una cultura ben radicata nel Tempo e forte di indissolubili valori sociali, allora sono andata alla ricerca di quelle “pietre miliari” performative a cui poter attingere la conoscenza vera dell’arte presa in considerazione. Naturalmente questa ricerca non è stata affatto facile: in quegli anni non si riuscivano a reperire informazioni attraverso un semplice click, come oggi. Dunque, spesso l’unico modo per poter discernere e individuare i personaggi della scena più autorevoli era quello di testarli tutti e affidarsi al proprio istinto. Metodo, questo, che ho sempre tenuto presente nelle svariate occasioni di conoscenza e studio di nuove realtà performative, come il waacking e voguing, su cui si fonda la mia carriera a tutt’oggi.

Poi avviene la scoperta del waacking e del voguing, sia all’interno di contesti europei sia statunitensi, in particolare a New York City. Quando sei stata lì per la prima volta e come è stata quell’esperienza a livello artistico ed emotivo?

Sono stata a New York City per la prima volta nel 2008 e solo allora ho scoperto davvero il waacking e il voguing, perché in Italia ve ne era solo un piccolo accenno all’interno di creazioni coreografiche, eseguite da alcuni danzatori che avevano avuto modo di studiare entrambe le discipline in maniera davvero sporadica. Dunque, non c’era alla base la conoscenza né della cultura né della storia attraverso cui queste danze si sono radicate e sviluppate nel tempo. Nella Grande Mela – un po’ per caso e un po’ per fortuna, lo devo ammettere – ho potuto studiare nelle classi dei veri e propri “pilastri” di queste danze, cimentandomi in qualsiasi tipo di lezione, senza avere piena coscienza di cosa stessi apprendendo al cento per cento. Ho studiato con Archie Burnett, Benny e Javier Ninja, Princess Lockerooo, Aus Ninja, Tyrone Proctor e, soprattutto, Brian Green, artefice della riscoperta e della rivalsa di questi due stili coreografici sfortunatamente dimenticati per un bel po’ di anni. E questa “rinascita” mi ha toccata anche in prima persona, nel senso che sin dal primo approccio ho avvertito immediatamente che le dinamiche e gli elementi tecnico-performativi erano nelle mie corde, che questi erano gli stili di danza che più mi appartenevano e mi rappresentavano. E, dunque, spronata fortemente anche dalla voglia di imparare e di riuscire a manifestare col mio corpo la femminilità e l’attitude che gli insegnanti promulgavano, ho continuato ad allenarmi anche in Italia in questo ambito, perseguendo in lungo e in largo per l’Europa questi “mentori”, da cui non potevo far altro che trarre ispirazione.

Sotto il profilo culturale, invece, cosa hai scoperto e quale è stata la “rivelazione” che ti ha convinta a perseguire il progetto di divulgazione di queste danze in Italia?

Devo dire che in qualsiasi campo mi sia imbattuta finora (dall’Università all’organizzazione di eventi) ho sempre ritenuto fondamentale conoscere e scoprire il background storico e culturale che una danza porta con sé, perché – a mio parere – è grazie ad esso che si riesce a comprendere appieno il significato e l’essenza di una danza, esattamente come è successo a me quando ho studiato qualsiasi stile coreografico nelle svariate classi che ho frequentato. La connessione, oltre naturalmente allo studio, che si viene a creare con le radici storico-culturali di una danza è impareggiabile, a mio avviso, e dovrebbe essere sempre ricercata.

L’intensità di studi coreutici, dunque, nell’ambito del waacking e del voguing ti porta presto a essere coreografa, oltre che interprete. E in questo ambito la tua carriera, in perfetta evoluzione con la forma mentis, ti conduce a dirigere tre realtà performative distanti tra loro: le Wawas, i Vambicj e, infine, i B-fuji. Me ne racconteresti in pillole?

Le Wawas sono nate a Bologna e sono state una realtà radicata fortemente al genere hip hop e house, al cui interno inframmezzavo delle piccole movenze e dinamiche di waacking e voguing, ma senza darne un valore esclusivo. Col gruppo dei Vambicj, invece, ho voluto costruire una prima vera e propria realtà artistica dedicata interamente alle due discipline statunitensi, tenendo conto del fatto che, essendo il mio primo tentativo in assoluto, si trattava soltanto di “esperimento”, che – grazie al Cielo! – ha avuto un riscontro molto positivo, tanto da innescare in me la scintilla per la nascita dei B-fuji, i quali, prima di essere una compagine di danzatori e performer, è un progetto artistico collettivo, che incamera al suo interno anche altre figure e personalità professionali che attingono ad altri campi artistici, come la musica, la fotografia, la grafica pubblicitaria e la comunicazione.

Nel 2012 entri a far parte della Iconic House of Ninja, di cui divieni poi Mother nell’ambito della “famiglia” italiana. Potresti spiegare meglio di che si tratta?

La Iconic House of Ninja nasce a New York City intorno agli anni ‘80. É una delle numerose House di voguing presenti e attive a tutt’oggi, se non una delle più famose e importanti perché dalle orme del “capostipite” Willi Ninja si sono, poi, affermati nella scena performativa mondiale personaggi del calibro di Benny e Javier Ninja, nonché lo stesso Archie Burnett. Col diffondersi, quindi, della tecnica e della cultura legate a questa House, sono venuti a crearsi in diversi Paesi dei cosiddetti “chapters” targati Ninja, tra cui quello relativo all’Italia, nato per la precisione nel 2012 da un piccolo nucleo composto da me e altri tre danzatori e performer. Come accennavi tu nella domanda, la struttura dei chapters è fortemente gerarchizzata e ogni singolo componente riveste il ruolo pari a quello interno a una famiglia: Father e Mother (i “capofamiglia”) all’apice, Kids (i “figli”/discepoli) alla base. Nel mio caso, l’assegnazione del titolo di Mother è avvenuta – da parte di Benny, Javier e Archie – a seguito della pregnante sequela di futuri kids Ninja che ho “cresciuto” e formato nell’ambito delle lezioni e degli show coreografici.

Il tuo successo personale e a livello di crew viene riconosciuto in moltissimi eventi di ambito hip hop e/o specificamente relativi al waacking e al voguing, finanche a “bucare lo schermo” nel programma TV Zelig. Cosa ha convinto i coreografi dello show a dare visibilità a questo tipo di danza? E quali emozioni hai provato tu personalmente?

Sia la produzione sia la coreografa del programma televisivo Zelig, Mirella Rosso, hanno voluto plasmare un nuovo cast di danzatori e performer estremamente eterogeneo, spaziando dalla danza classica all’hip hop e, di conseguenza, facendoci sentire tutti quanti completamente a nostro agio. Nel mio caso, in particolar modo, ho provato delle emozioni fortemente positive nel sentirmi affatto snaturata dalla danza a cui ho dedicato e continuo tutt’oggi a dedicare la mia vita e il mio lavoro, senza, dunque, scendere ad alcun compromesso sull’aspetto coreografico delle mie performance.

Allontanandoci per un momento dalla danza, è bene menzionare anche il tuo pregnante contributo nel mondo del fashion, che ti ha visto più volte modella per diversi brand ed eventi (più o meno) performativi. Si potrebbe dire che siano state occasioni per “perfezionare” il tuo attitude nelle competizioni di voguing a cui hai poi partecipato o nelle lezioni che hai tenuto?

Utilizzando un’espressione proverbiale, posso dire che “tutto fa brodo”: ogni esperienza professionale annoverata nel mio curriculum vitae è un elemento di formazione in più per svolgere al meglio il lavoro che faccio. E anche quando i brand e gli eventi, per cui sono stata richiesta come modella, non erano di natura prioritariamente performativa, sono riuscita a farne tesoro per carpire il necessario a incrementare le mie capacità artistiche e, soprattutto, per comprendere il vantaggio della versalità professionale, concetto-chiave che ho infuso e continuo ad infondere anche nelle persone con cui collaboro in ambito performativo.

Tutta questa intensa mole di lavoro ti ha condotto a un trasferimento a Milano e ti permette di viaggiare da un capo all’altro del mondo continuamente, mettendoti a confronto con sempre nuove realtà performative. Quali differenze noti con l’Italia, non soltanto per il tuo campo ma anche per la valorizzazione della danza in generale?

I molteplici viaggi che negli ultimi due anni ho avuto la fortuna di effettuare per lavoro (in Russia, Grecia, Austria, Francia, Ucraina, Olanda, New York e – prossimamente – Romania) mi hanno dato modo di conoscere realtà performative, ma soprattutto sociali, diversissime tra di loro, dal rapporto tra le quali ho potuto comprendere davvero quanto il waacking e il voguing stiano prendendo piede al giorno d’oggi in modo così diverso all’interno di uno stesso continente come l’Europa. Infatti, la differenza tra la scena russa e quella francese è abissale, data l’enorme difficoltà di esposizione della cultura gay nell’una contro l’altra società apertissima e tollerantissima, a tal punto da stimolare una gremita partecipazione agli eventi specifici. E devo dire, inoltre, che anche sul piano dell’insegnamento nelle classi questa differenza di cui parlavo è pregnante: in Russia, infatti, il rapporto con l’insegnante generalmente tende a essere molto freddo, distaccato, timoroso persino (ad esempio, difficilmente ricevevo domande dagli allievi perché risultava per loro un “segno di debolezza” dimostrare anche una semplice incomprensione!); mentre in Francia e in Olanda ho ritrovato lo stesso atteggiamento che adotto nelle classi italiane, dove lo scambio di battute e un approccio più disinvolto incorniciano perfettamente l’intero lasso di tempo dello stage. Ritengo, comunque, di dover precisare che, nonostante queste disparità culturali e sociali, in tutti i Paesi europei in cui sono stata è palese l’incentivo economico che viene sovvenzionato in virtù dello svolgimento di eventi performativi votati esclusivamente alle due discipline statunitensi, al contrario – purtroppo – del nostro Bel Paese, in cui a tutt’oggi si riesce solo faticosamente ad organizzare Ball e contest adeguati.

Infine, una domanda un po’ di rito: quali progetti ti riserva il futuro e come credi che il tuo contributo artistico possa colmare le lacune che la cultura – prima che la danza vera e propria – italiana porta con sé?

Intendo continuare quello che faccio esattamente con la medesima intensità e passione, per far sì che, attraverso le mie lezioni e/o l’organizzazione di eventi performativi ad hoc con lo Zelig milanese e altre realtà (anche della mia cara Bologna!), si riesca a perpetuare questo clima di serenità, di libertà d’espressione e di apertura culturale che sinora ha reso la partecipazione degli interessati molto attiva ed emotivamente assai coinvolta. Ma, soprattutto, spero tanto che le collaborazioni presenti e future, sicuramente di spicco nella scena culturale italiana, possano essere un’ottima “vetrina” per presentare e raccontare la storia di queste danze, di ciò che hanno rappresentato nel passato e di quel che possono significare oggi, infondendo in ogni modo una conoscenza in più di queste danze che – si spera – non risultino più come solo “di nicchia”.

Marco Argentina

www.giornaledelladanza.com

Barbara “La B. Fujiko” Pedrazzi © Lesar Junior

Barbara “La B. Fujiko” Pedrazzi © Stefano Oliva

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