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“Continua a sorridere”: intervista a Marek Różycki

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 Marek Różycki, originario della Polonia si forma alla “Poznan State Ballet School” dove studia con il metodo Vaganova. Il suo primo impegno professionale è con il “Polish Dance Theatre”, sotto la guida del Maestro Conrad Drzewiecki, in quel momento il coreografo più innovativo della scena tersicorea polacca. Entra poi a far parte del “Bremer Dance Theatre” diretto da Reinhild Hoffman. Nel 1982 arriva a Berlino alla “Deutsche Oper Berlin” e nel 1990 diviene primo ballerino. In questo periodo inizia anche la sua carriera di coreografo. Approda poi alla “Staatsoper Berlin” sotto la direzione di Michael Denard, dove ricopre i ruoli di primo solista, maestro del corpo di Ballo, maestro di ballo e coreografo, ampliando così la sua esperienza nel mondo della danza. È stato poi invitato in Danimarca come primo maestro di ballo e assistente coreografo di Peter Schaufuss e della sua Compagnia. Per un anno crea coreografie ed insegna in tutta Europa. All’“Institut de Recherche et de Pédagogie Chorographiques” di Parigi del “Centre National de Danse” riceve, con Diplôme d’Ètat, il titolo di professore per la danza classica. Bertrand D’At, direttore del “Ballet du Rhin”, lo vuole insegnante ospite residente per la compagnia e professore di danza classica al “Conservatoire National de Région” di Strasburgo. Il suo successivo impegno lo riporta a Berlino, al fianco di Adolphe Binder, come suo Direttore Artistico associato e primo Ballet Master per il “Berlin Ballet Company of the Komische Oper Berlin”. Attualmente è insegnante e vice direttore artistico della “State Ballet School di Berlino”.

Maestro cosa ricorda dei suoi inizi nel difficile percorso come allievo presso la celebre scuola polacca dalla quale proviene?

Mi ricordo di Wanda Yacoviska una straordinaria insegnante proveniente dalla scuola di Diaghilev. Una persona che ha molto segnato il mio essere artista. Il modo in cui si presentava a lezione, come si vestiva, come organizzava le classi, la sua maniera di dialogare con noi ha davvero caratterizzato il mio essere insegnante e ballerino. Se non fosse stato per lei non avrei mai danzato perché lo avrei considerato troppo difficile. Lei era capace di coinvolgerci con il suo entusiasmo, ricordo che ripeteva sempre “continua a sorridere”, che non era un invito sterile ad avere un atteggiamento artificioso ma era un vero stimolo a gioire per quello che si stava facendo, a godere di quello che si stava facendo!

Mentre della sua esperienza in palcoscenico prima come studente e poi come professionista?

Avevo solamente dieci anni, ero appena stato ammesso alla scuola di ballo e avevano bisogno di un ragazzino che doveva in qualche modo interpretare il principe nel “Lago” ed io ero molto fiero di entrare in palcoscenico con una specie di attrezzo in mano, mi sentivo molto importante. Poi sono entrato in Compagnia abbastanza presto sotto la direzione di Conrad Drzewiecki. Lasciò la Polonia negli anni Cinquanta danzando in Europa e in America e tornò in patria solo agli inizi degli anni Sessanta fondando la prima compagnia di danza indipendente con trenta ballerini e un organico a sé completamente autonomo dal Teatro dell’Opera, con un proprio direttore e con la sede nella nostra scuola. Aveva bisogno di allievi e iniziai ancora prima di diplomarmi a danzare i suoi ruoli, poi una volta diplomato partimmo in tournée per l’Italia nel 1982 e non tornai più in Polonia, perché sapevo che se fossi tornato avrei dovuto entrare nell’esercito, e così non mi presentai all’appuntamento la mattina stabilita per il rientro in patria. Ricordo eravamo a Bergamo, era la nostra ultima tappa di una lunga tournée. Scappai così a Roma in cerca di contratti come ballerino ma poi andai in Germania a Bremen, dove fui accolto dalla Compagnia di Susan Linke con grande affetto, nonostante non parlassi una parola di tedesco: avevo solo diciotto anni e c’erano ballerini provenienti da ogni parte del mondo.

Dopo il diploma è entrato al “Polish Dance Theatre”, cosa rendeva speciale e così innovativo sulla scena internazionale il coreografo e direttore Conrad Drzewiecki?

Conrad era una persona coraggiosa, ha lasciato la Polonia come me. È stato un’ispirazione e se adesso ci ripenso ho rifatto le stesse cose che ha fatto lui. Ha creato coreografie rivoluzionarie per quei tempi, assolutamente innovative e con un linguaggio totalmente versatile. Usava ogni specie di comunicazione artistica: danza, teatro, movimenti acrobatici. Possedeva un suo particolare modo di costruire dinamiche e movimenti. Penso sia stato un artista che ha davvero cambiato il modo di concepire l’arte della coreografia in Polonia e nell’intera storia della danza.

Mentre dal genio creativo di Peter Schaufuss che esperienza ne ha tratto?

Ho avuto la grande opportunità di lavorare a fianco di artisti come Peter Schaufuss proprio a Berlino dove lui era direttore, e la prima produzione a cui ho preso parte alla “Deutche Opera” è stata una sua coreografia. Oltre ad essere un eccellente danzatore era soprattutto una persona di straordinario coraggio e forte personalità. Ammirava enormemente Nureyev e tutto quello che Rudy ha fatto modificando le coreografie di Petipa lui lo ha fatto con Bourneville. Attualmente ha una sua compagnia privata e si è rivelato anche un ottimo manager. Le sue creazioni sono molto descrittive, per esempio ha montato un’intera coreografia ispirandosi alla vita della principessa Diana, ma anche ai Beatles e ai Rolling Stones. Quello che mi ricordo di Peter è la sua assoluta dedizione per la tecnica: è stato lui a portare in Europa i primi Maestri di comprovata eccellenza provenienti dagli Stati Uniti, tutti molto ossessionati dalla pulizia dei movimenti, dalla ricerca della perfezione. Da Peter ho anche imparato che la danza non può essere solo arte ma anche business. Devi lottare per avere contributi, devi socializzare, promuovere te stesso e il tuo lavoro. La danza ha bisogno di soldi, ha bisogno di persone che investono nell’arte della danza; le persone semplici non hanno la capacità nel concepire di investire capitali nella danza ma proprio per questo dobbiamo lottare per far sopravvivere questa magnifica disciplina attraverso donazioni e contributi. La danza è un’arte onerosa e piena di costi: ci vogliono bei teatri, costumi, bravi danzatori e tutto questo ha un costo notevole.

Qual è il balletto che ha amato di più del grande repertorio e quello del repertorio contemporaneo?

Il balletto che amo di più e che ho danzato davvero con gioia è una coreografia di Christofer Bruce “Swan song” dedicata ad Amnesty International. È un balletto che narra le vicende di alcuni detenuti, un pezzo molto intenso e profondo… esattamente come la persona di Bruce, un coreografo geniale, preciso nelle sue indicazioni, sapeva esattamente quello che voleva da ogni danzatore, un coreografo di sopraffina cultura. Il balletto in questione ha un brano danzato da tre uomini che richiede un notevole sforzo fisico e mentale. Poi ricordo una bellissima “Giselle” con Carla Fracci ed una con Alessandra Ferri, quest’ultima mi ha sempre emozionato per la sua femminilità: la sua “Giselle” non era affatto una fanciulla pallida e asessuata, persino nel secondo atto Alessandra emozionava per la sua incredibile sensualità. Adoravo danzare con lei. Ho danzato in seguito “Giselle” anche con Eva Evdokimova e con altre famose danzatrici ma loro erano creature, esseri soprannaturali, Alessandra invece è stata sempre e solo una donna. La adoro! Un altro balletto che amo è “Raymonda” di Nureyev. “Onegin” di Cranko, che è costruito come un film. E il capolavoro di Christofer Bruce “Cruel Garden” che narra la fine di Garcia Lorca. È un brano di immensa intensità, molto triste, contemporaneo. Amo anche il capolavoro di Ashton “One mouth in the Country”. Adoro i coreografi che non danno risposte ma creano domande: prendiamo Kylian, le sue coreografie sono piene di punti di domanda.

Sotto la sua vice direzione presso la State Ballet School di Berlino si sono diplomati talenti che oggi ricoprono ruoli d’eccellenza. Quale ritiene sia il suo segreto professionale e didattico che l’ha resa una figura di rilievo e di alto profilo?

Ho vissuto in un periodo di forte intensità: gli ultimi anni del Novecento sono stati gli anni d’oro della danza. Ho conosciuto i grandi coreografi che hanno scritto la storia della danza: Sir MacMillan, Frederick Ashton, Maurice Bejart. Ho assistito al graduale mutamento della tecnica che George Balanchine con il suo stile innovativo ha portato all’apice dell’evoluzione. Sono stati non solo grandi coreografi ma persone di altissima cultura, conoscitori profondi della filosofia, letteratura, storia dell’arte, musica. Non so se gli attuali coreografi hanno questa preparazione, mi sembrano abbastanza approssimativi, dicono per esempio “tu come lo faresti questo movimento?” I coreografi con cui ho lavorato io ti dicevano esattamente quello che volevano da te e le indicazioni erano chiare ed esplicite. La cultura, intesa come unione di diverse conoscenze, oggigiorno sta morendo, una volta si era molto più responsabili che il balletto avesse successo che contemplasse specifici canoni, vedo tutto questo lentamente disintegrarsi lasciando posto a creazioni superficiali e frantumate. Penso che a volte il peggio venga messo in scena premiando un certo fatalismo, portando in palcoscenico disagi mentali che di solito si curano dal psicologo e non annoiando gli spettatori!

Quando ha smesso di ballare?

Ho smesso di ballare diventando ballet master e poi vice direttore della scuola a Berlino.

Quali sono i Suoi maggiori consigli tecnici, oltre alle innate doti fisiche, per avvicinarsi allo studio “accademico” della danza classica?

Adoro gli studenti che dimostrano di voler riuscire in quello che stanno facendo, penso che sia la dote più bella da intravvedere in un giovane talento, il percepire la volontà di volerlo fare è l’aspetto che trovo più sorprendente in un allievo. Come il ballerino del celebre musical “Chorus line” che canta “Yes I Can Do It!” Lo trovo realmente divertente e stimolante!

Durante un’audizione, quale tipo di danzatore/rice la colpisce? Cosa ricerca oltre alla preparazione tecnica e all’attitudine?

Devono essere entusiasti di mostrare che loro fanno bene il loro mestiere. E poi devono essere disciplinati, intelligenti, analitici nel lavoro, devono capire esattamente come funziona il corpo e come evitare incidenti e situazioni di forte stress fisico e mentale. Devono essere affamati di conoscenza e devono possedere uno sguardo che attrae il pubblico. Devono essere fortemente motivati ad andare in scena con l’assoluta convinzione che il pubblico si deve accorgere di loro.

Michele Olivieri

(traduzione di Antonella Mandanici)

www.giornaledelladanza.com

 

 

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