Nato a Firenze, Saverio Cona vanta una carriera pluridecennale che attraversa i maggiori teatri italiani e compagnie di danza contemporanea di rilievo internazionale. Dopo un lungo e significativo ruolo al Balletto di Toscana, dove ha collaborato con coreografi di fama internazionale e supportato l’affermazione di nuovi talenti italiani, Cona si è distinto per il suo contributo allo sviluppo di importanti realtà culturali fiorentine, tra cui il Festival Fabbrica Europa e l’Estate Fiesolana. Co-fondatore e co-direttore artistico, insieme a Cristina Bozzolini, del Festival Nutida ‒ giunto quest’anno alla sua sesta edizione ‒ Cona promuove un approccio curatoriale che privilegia l’innovazione, la multidisciplinarietà e il dialogo serrato tra pratica artistica, comunità e territorio, consolidando così il ruolo del Festival come piattaforma di sperimentazione e contaminazione nel contesto nazionale e internazionale della danza contemporanea.
Lei ha alle spalle una lunga e prestigiosa carriera, tra cui un ruolo chiave al Balletto di Toscana per oltre 15 anni. Quali esperienze di quel periodo ricorda come le più formative e quali sono state le sfide più impegnative che ha dovuto affrontare?
Ho collaborato con il Balletto di Toscana per quindici anni, dal 1985 al 2000. È stato un periodo straordinario, molto formativo. I primi anni sono stati dedicati alla costruzione della compagnia: un processo intenso e appassionante. Cristina Bozzolini è riuscita a coinvolgere coreografi di grande prestigio, molto attivi in quel periodo. Ricordo, tra tutti, Christopher Bruce, che per noi fu un vero punto di riferimento. Abbiamo affrontato sfide significative, perché dovevamo inserirci in un mercato che, all’epoca, quasi non esisteva. La compagnia ha dovuto conquistarsi uno spazio nei teatri e costruire il proprio pubblico. Questo percorso, però, è stato affrontato con entusiasmo e determinazione, e già dopo pochi anni abbiamo compiuto passi importanti. Alla fine degli anni ‘80, abbiamo portato in scena la nostra prima coreografia a serata intera: Giulietta e Romeo di Fabrizio Monteverde, un momento molto significativo. Lo spettacolo è rimasto nel repertorio del BDT sino al 2000 con oltre 100 repliche, dal 2002 è stato ceduto al Balletto Di Roma. Negli anni ‘90 si è affermata progressivamente una nuova generazione di coreografi, molti dei quali si sono formati proprio all’interno della compagnia. Oltre a Monteverde, penso a Virgilio Sieni e Mauro Bigonzetti: vederli crescere artisticamente è stato uno degli aspetti più entusiasmanti della nostra esperienza. La sfida più impegnativa arrivò verso la fine del mio percorso con il Balletto di Toscana, quando fummo coinvolti in una tournée di due mesi tra Nord e Sud America. Solo negli Stati Uniti facemmo circa 40 repliche, da costa a costa. Gestire una tournée di questa portata è stato più che una semplice sfida: è stato un impegno totalizzante, ma anche uno dei momenti che più porto con me, con orgoglio e gratitudine.
Ha avuto un ruolo importante anche in altre realtà culturali fiorentine di rilievo, quali il Festival Fabbrica Europa e l’Estate Fiesolana. Può raccontarci come ha contribuito allo sviluppo di questi eventi e come ha visto evolvere la scena contemporanea a Firenze nel corso degli anni?
Ho collaborato per moltissimi anni sia con Fabbrica Europa che con Estate Fiesolana. In particolare, la mia esperienza con Fabbrica Europa è durata 25 anni ed è stata per me fondamentale. È nata dall’incontro con Maurizia Settembri e dall’idea, allora assolutamente innovativa, di creare un festival dedicato al contemporaneo che unisse diverse discipline artistiche. Una delle particolarità uniche di Fabbrica Europa era la sua collocazione nell’ex Stazione Leopolda, un enorme spazio riconvertito, che diventava un vero e proprio centro pulsante di attività. Tutto accadeva lì, in un unico luogo, e questa “unità spaziale” contribuiva a dare al progetto una forza e un’identità straordinarie, come se ci si trovasse nel cuore di un grande motore creativo. Io affiancavo Maurizia Settembri con il compito di rendere concretamente realizzabili le visioni degli artisti: non avevamo un teatro strutturato; quindi, dovevamo adattare porzioni dello spazio per renderle agibili alle diverse forme performative. È stata un’esperienza eccezionale e altamente formativa, proprio perché dietro c’era un’idea forte e pionieristica: un festival che per la prima volta poteva definirsi “sul contemporaneo”, una parola sola per includere molteplici linguaggi artistici. Fabbrica Europa è stata (e continua a essere) un’attività centrale per la vita culturale di Firenze, capace di attrarre e far dialogare artisti e pubblici di provenienze diverse. Oltre a questo percorso, c’è stata anche la lunga esperienza con Estate Fiesolana, il festival all’aperto più antico d’Italia, ospitato nello splendido teatro romano di Fiesole. È un festival generalista, con una lunga tradizione, e l’idea che ha generato Nutida è nata proprio lì, a Fiesole. Il gruppo di lavoro era lo stesso, condividendo visione e progettualità. Per anni abbiamo curato l’organizzazione di questo festival, notando con curiosità e rispetto che, secondo la concezione romana originale, gli spettacoli iniziavano solo al calar del sole. Abbiamo voluto recuperare questa suggestione, questo legame con il passato, e l’abbiamo poi portato anche a Scandicci, adattandolo ad altri contesti ma mantenendone lo spirito.
Il13 giugno 2025, a Scandicci, sarà inaugurata la sesta edizione del Festival Nutida, da lei co-fondato insieme a Cristina Bozzolini. Ci può anticipare le novità di quest’anno?
La sesta edizione del Festival Nutida si colloca in piena continuità con le cinque precedenti. Non riteniamo necessario assegnare titoli o sottotitoli a ciascuna edizione, perché l’idea alla base del progetto è, di per sé, più forte e significativa di qualsiasi etichetta. Detto questo, ci sono alcune novità che rappresentano sviluppi importanti. In particolare, abbiamo dato sempre maggiore spazio alla musica dal vivo, arrivando quest’anno a proporre otto spettacoli accompagnati da musica live. È una direzione che abbiamo scelto in modo deliberato e su cui continuiamo a lavorare per migliorarne costantemente la qualità e l’integrazione con il linguaggio performativo. Un altro aspetto centrale è il dialogo con l’arte contemporanea. In questa edizione sono coinvolti due artisti per noi molto significativi. Il primo è Valerio Berruti, le cui opere visive saranno parte integrante di uno degli spettacoli in programma. Il secondo è Andrea “Bobo” Marescalchi, artista scomparso da alcuni anni: riproporremo una sua installazione storica, Voliere, originariamente realizzata a Marrakesh nel 1997. L’opera non solo arricchirà lo spazio scenico, ma sarà anche teatro di alcune performance, una delle quali sarà espressamente dedicata all’installazione stessa. Infine, un’ultima novità riguarda la relazione con il pubblico, che stiamo cercando di esplorare anche in forme meno convenzionali. Abbiamo ideato due serate speciali, intitolate Non Stop Ecstatic-Dancing, una sorta di workshop istantaneo e partecipativo. Alla fine degli spettacoli, il pubblico sarà invitato a unirsi in una performance collettiva, ispirata alla tradizione del ballo popolare, ma sempre filtrata attraverso il nostro sguardo contemporaneo.
Potrebbe illustrare dettaglio in cosa consiste la novità più importante di questa edizione, ossia la “Calimala Disclosure Platform”?
La “Calimala Disclosure Platform” è un progetto che nasce come incubatore per giovani autori e performer, sviluppato all’interno di Danza in Fiera, recentemente entrato a far parte dei saloni di Pitti Immagine. In accordo con Fondazione Pitti Discovery, abbiamo deciso di arricchire il programma della fiera con un percorso artistico dedicato alle nuove generazioni, offrendo loro uno spazio di visibilità e crescita. La selezione è stata aperta a livello internazionale attraverso una call rivolta a giovani under 25 e abbiamo ricevuto numerose candidature da cui sono stati selezionati cinque autori, per un totale di sette danzatori. I progetti sono stati presentati in anteprima durante Danza in Fiera davanti a una commissione prestigiosa, guidata da Sveva Berti, che ha seguito l’intero percorso come figura di riferimento. Dopo la prima presentazione, i giovani coreografi hanno proseguito il lavoro all’interno di un percorso di mentorship, pensato per offrire loro il supporto necessario allo sviluppo artistico e tecnico delle loro creazioni. Il risultato è un programma composto da cinque coreografie originali, che vengono ora presentate ufficialmente al pubblico. Crediamo profondamente nel valore di questo progetto, che rappresenta la naturale evoluzione di un lavoro che portiamo avanti dal 2019. Oggi, grazie a un contesto più strutturato e integrato, possiamo offrire un’opportunità concreta e qualificata a giovani talenti della danza contemporanea. Siamo già molto soddisfatti di quanto emerso finora e non vediamo l’ora di seguirne gli sviluppi futuri.
In che modo il Festival Nutida si propone come spazio di innovazione e multidisciplinarietà, in particolare nel campo della danza contemporanea?
È un percorso sicuramente complesso e articolato, ma anche molto appassionante. Come già accennato, il nostro intento è sempre stato quello di esplorare nuove possibilità, di aprire strade non ancora battute. In realtà, Nutida non si ferma mai: le settimane di programmazione sono solo la parte più visibile di un lavoro che dura tutto l’anno, nato fin dall’inizio come un progetto del cuore, da quando io e Cristina Bozzolini l’abbiamo ideato. Siamo partiti all’interno della Scuola del Balletto di Toscana, con l’obiettivo di offrire spazio alle nuove generazioni, trasformando il progetto in una palestra di formazione e crescita. Questo resta il cuore pulsante di Nutida, la sua ossatura. Ma col tempo il Festival è cresciuto: oggi è sostenuto anche dal Ministero della Cultura, e questo ci ha portato ad assumere nuove responsabilità, ad ampliare la visione e a coinvolgere una rete sempre più ampia di realtà artistiche; in particolare coreografi e danzatori indipendenti. Crediamo profondamente che essere un punto di riferimento e mettersi a disposizione degli artisti più giovani sia una parte fondamentale della nostra missione. Per questo, il nostro approccio è quello di seminare, creare connessioni, avviare dialoghi. Ogni progetto nasce da un confronto diretto: parliamo personalmente con ogni artista, cerchiamo di far emergere suggestioni, visioni, intuizioni che poi diventano parte del programma. La multidisciplinarietà è intrinseca a questo percorso. Quando ci si mette in ascolto di ciò che può generare movimento – non solo fisico, ma anche poetico, estetico, sociale – allora si entra nel campo che ci interessa di più. È lì che ci sentiamo a casa, è lì che Nutida prende forma ogni volta.
Si può dire che Nutida sia un punto di incontro e dialogo tra culture diverse e tendenze artistiche nella danza contemporanea. Come si costruisce questo dialogo all’interno della programmazione?
È vero: all’interno della programmazione di Nutida accogliamo diverse tendenze coreografiche, cercando di cogliere l’evoluzione continua della danza contemporanea. Questo dialogo tra linguaggi si costruisce seguendo alcuni criteri ben precisi. Il primo è legato alla nostra storia personale e culturale, mia e di Cristina Bozzolini. Abbiamo sviluppato nel tempo una rete di connessioni con artisti con cui collaboriamo da anni, e continuiamo a sollecitare la loro presenza nel festival, perché crediamo nel valore della continuità e del confronto duraturo. Un secondo criterio, altrettanto importante, è legato alla volontà di dare spazio alla varietà e alla diversità delle esperienze artistiche. Per questo abbiamo immaginato una modalità specifica: andare a cercare quegli innumerevoli artisti italiani che lavorano all’estero, soprattutto in Europa. Oggi, non esiste compagnia di danza europea che non abbia danzatori italiani, e questa sorta di “diaspora” è in gran parte il risultato della carenza di opportunità professionali nel nostro Paese. Molti di questi artisti completano la loro formazione fuori dall’Italia o trovano lì il loro primo lavoro. Avviare un dialogo con loro è estremamente proficuo: da un lato, ci sta a cuore il desiderio di riportarli a esibirsi in Italia, dall’altro, il confronto con i loro percorsi artistici internazionali, spesso molto diversi da quelli a cui siamo abituati, ci arricchisce profondamente. Ogni ritorno porta con sé uno sguardo nuovo, una diversa sensibilità, e questo ci conferma che stiamo seguendo una direzione giusta. Questo è oggi il focus principale di Nutida: aprire spazi, costruire ponti, valorizzare la ricchezza delle esperienze italiane nel mondo e restituirle al nostro contesto culturale.
Quali sono le principali sfide che incontra oggi nella gestione di un festival multidisciplinare e in continua evoluzione come Nutida?
La gestione è sicuramente l’aspetto più impegnativo che affrontiamo come gruppo di lavoro. Sul piano artistico, le idee non ci mancano: siamo immersi in un ambiente creativo vivo e dinamico, fatto di artisti, programmatori e operatori con cui il dialogo è continuo e molto stimolante. La vera sfida, però, è quella organizzativa e gestionale, che richiede grande attenzione e responsabilità. La tendenza naturale sarebbe quella di crescere costantemente, ma dobbiamo essere sempre molto attenti a fare i passi giusti, mantenendo coerenza e solidità. Soprattutto, dobbiamo operare entro i parametri richiesti dal Ministero e da altre istituzioni pubbliche, che giustamente pongono vincoli e criteri precisi. Uno degli aspetti più complessi è l’integrazione dei tempi: quelli della programmazione artistica, che ha ritmi propri e spesso richiede flessibilità, e quelli istituzionali, legati ai finanziamenti e alle procedure di accesso alle risorse. Non è un tema nuovo: riguarda tutti gli operatori del settore, ma resta una sfida costante che richiede una grande capacità di adattamento e pianificazione. In questo senso, Nutida è solo la punta dell’iceberg: il festival rappresenta il momento più visibile, ma il lavoro prosegue durante tutto l’anno con altre rassegne e iniziative, che spesso ci servono anche per sperimentare nuove idee e testare progetti che poi confluiscono nella programmazione principale. Il nostro lavoro unisce immaginazione e rigore gestionale: dobbiamo avere consapevolezza dei mezzi a disposizione, sapere come utilizzarli in modo efficace e responsabile, e soprattutto essere virtuosi anche dal punto di vista dei bilanci. Solo così possiamo garantire continuità e qualità, senza tradire lo spirito originario del progetto.
Nella Sua esperienza di direttore artistico, qual è la sua visione del rapporto tra arte, comunità e territorio? In che modo questi elementi si influenzano a vicenda nel suo lavoro?
Il rapporto con il territorio è per noi fondamentale. Abbiamo scelto deliberatamente di stabilire la nostra sede nel Comune di Scandicci, che fa parte della Città Metropolitana di Firenze. Scandicci è una realtà urbana viva, numerosa, integrata sia culturalmente che geograficamente con il capoluogo, ma con una forte identità propria. Proprio per questo motivo, abbiamo deciso di radicarci qui e di rivolgere il nostro lavoro alle comunità locali, con un’attenzione particolare agli aspetti sociali e inclusivi. Il nostro progetto si chiama Stazione Utopia: siamo a tutti gli effetti un’impresa sociale, e questo significa che il nostro raggio d’azione va oltre la dimensione artistica. Cerchiamo di costruire connessioni reali tra arte e società, e questo si riflette in ogni aspetto della nostra programmazione. Ad esempio, portiamo la danza nelle RSA, di fronte a un pubblico che, per ragioni evidenti, non può raggiungere i teatri. Lo facciamo con convinzione, perché riteniamo che l’accesso alla cultura debba essere universale. Lavoriamo anche con bambini e ragazzi nei centri estivi, attraverso pratiche di danza curate dai nostri formatori: un’attività che per noi non è “aggiuntiva”, ma parte integrante del nostro approccio, una componente strutturale della nostra visione. Parallelamente, nel cuore della nostra programmazione rimane l’impegno verso le nuove generazioni di artisti. Come già accennato, lavoriamo a stretto contatto con coreografi e danzatori under 35: due delle quattro compagnie giovanili finanziate dal Ministero fanno parte della programmazione di Nutida, accanto a una serie di gruppi indipendenti che portano esperienze e linguaggi differenti. Tutto questo contribuisce a comporre il mosaico variegato che è Nutida: un progetto culturale radicato nel territorio ma aperto al mondo, dove la cura delle relazioni sociali e la spinta verso l’innovazione artistica convivono e si alimentano a vicenda.
Qual è, secondo Lei, il ruolo attuale della danza contemporanea nel panorama culturale italiano e internazionale? In che modo pensa che possa evolversi nei prossimi anni per rispondere alle nuove sfide artistiche, sociali e tecnologiche?
Siamo persone di danza. Siamo cresciuti dentro questo linguaggio, lo conosciamo intimamente e crediamo profondamente nel suo sviluppo e nel suo potenziale espressivo. Con il tempo, stiamo osservando una crescente rilevanza della danza anche sul piano internazionale, proprio perché è una forma d’arte che supera ogni tipo di barriera: linguistica, culturale, geografica. Questa consapevolezza ci dà anche un senso di responsabilità: ciò che è nuovo, ciò che nasce oggi, va ascoltato, intercettato, accolto. E sentiamo fortemente l’esigenza di rispondere alle nuove generazioni, che portano istanze e sensibilità figlie dei tempi in cui viviamo. La tecnologia, naturalmente, ha un ruolo importante nell’evoluzione della danza contemporanea, ma nel nostro modo di concepire e proporre il festival preferiamo lavorare “a nudo”, partendo dall’essenza dell’espressione artistica che nasce in sala danza. È una scelta deliberata: rinunciamo a certi apparati tecnologici per mettere il pubblico a contatto diretto con il processo creativo, restituendo un’esperienza che solitamente è riservata solo agli addetti ai lavori.Sappiamo che questo può voler dire, in parte, rinunciare a seguire alcune tendenze internazionali legate all’innovazione tecnologica, ma ci interessa di più offrire un’esperienza autentica, che metta al centro il corpo, il gesto, la presenza.Detto questo, sosteniamo con convinzione i lavori di tutti, inclusi quelli che fanno della tecnologia il proprio linguaggio. Crediamo nella pluralità dei linguaggi e nella necessità di dare spazio a forme differenti di ricerca e di espressione.
Guardando al futuro, quali nuovi progetti o direzioni artistiche ha in mente di esplorare? Ci sono ambiti o collaborazioni particolari che desidera approfondire?
Per quanto riguarda il futuro, abbiamo deciso di intraprendere una direzione un po’ diversa. Già a partire da quest’anno, io e Cristina Bozzolini siamo affiancati da nuovi collaboratori: abbiamo una direttrice junior, Gaia Bianchi, che supporta il nostro lavoro, oltre a diversi collaboratori esterni. Ho già citato Sveva Berti, che ha curato con noi e per noi tutta la prima fase di “Calimala”. Inoltre, per il futuro abbiamo scelto di introdurre la figura dei direttori artistici associati, che si alterneranno ogni anno. Posso anticipare che per il 2026 il direttore artistico associato sarà Diego Tortelli, mentre per il 2027 sarà Giuseppe Spota. Questa è una scelta ben precisa, una direzione che abbiamo deciso di seguire con convinzione: è il nostro futuro e quello che ci aspetta.
Lorena Coppola
Photo Credits: Saverio Cona – BDT
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