Emanuele Soavi, coreografo residente dal 2006 nella città di Colonia (Germania). Italiano di nascita, nato a Ferrara, inizia la sua formazione di danzatore presso la scuola del Balletto di Toscana di Firenze. Dal 1995 entra a far parte, prima della compagnia del Teatro Opera di Roma, Teatro la Fenice di Venezia, poi nel 1998 al Theater Dortmund e nel 2001 nella celeberrima compagnia Olandese Introdans, dove sino al 2007 interpreta tra gli altri creazioni di Jiri Kylian, Hans van Manen, William Forsythe, Nils Christe, Renato Zanella, Nacho Duato, Karole Armitage, Mats Ek. Contemporaneamente inizia dal 2004 la sua attività di coreografo dove firma lavori per Teatri e Festival Europei e Internazionali, come Theater Aachen, Theater Dortmund, Stadttheater Regensburg, Dock11 Berlin, Staatstheater am Gärtnerplatz München, Theater Duisburg, Bolzano Danza, ARTMark Festival Witebsk Bellarussia, Mittelfest in Cividale del Friuli, SATFestival Barcelona, Schrittmacher Festival Aachen, Tanzwoche Dresden, Odeon Tanz Wien, Löft Leipzig e Korzo Theater all’Aia in Olanda. Nel 2011 crea nella città di Colonia la “Emanuele Soavi incompany” insieme ai partner Tanzarchive Köln, Gestik Department – Università di Colonia dove, collabora con numerosi Artisti di fama Internazionale e, riceve il premio Città di Colonia come miglior Artista e Interprete con la coreografia “PANsolo”. In questi anni fino al 2014 lavora su una trilogia di ricerca dedicata agli archetipi e temi tratti dalla mitologia Greco-Romana: DAEDALUS//DREAMS, PAN COMPLEX e ARIADNEAMORE su musiche di Bach, Debussy, Monteverdi, Telemann eseguite dal vivo dall’orchestra Filarmonica del teatro dell’Opera di Duisburg e dai compositori di musica elettronica Wolfgang Voigt e Han Otten. Sempre per la “E.S.incompany” sotto il ciclo “Habit Cycles” presenta nei teatri Europei dal 2014: “Aurea” sotto la regia di Susanne Linke, “Paradisus?” in collaborazione con il gruppo di Teatro Analog Theatre Colonia, “Lvmen” con Cora Bos già danzatrice per quindici anni del Netherlands Dance Theatre, oggi assistente di Jiri Kylian e, Joris Jan Bos fotografo dal 1991 del Netherlands Dance Theatre. Nel prossimo mese di febbraio 2017 è prevista una nuova creazione per la ZHdK Zurich University of the Arts ad aprile l’ultimo quadro dell’“Habit Cycles” “ANIMA” insieme alla film-video maker Meritxell Aumedes residente a Berlino, a Settembre di nuovo con la Duisburger Philarmoniker sempre per il Teatro di Duisburg un lavoro per venti interpreti dal titolo “RELIC” su musiche di Bach, Concerti Brandeburghesi. In Italia instaura un stretto rapporto con Michele Merola dove crea negli ultimi anni, per il suo corso di perfezionamento “AGORA Coaching Project”, Sloweddown, Falene, Methamorphosis, Fragmented Moods, Invasioni e CIGNI//SWANS che verrà presentato a maggio 2017 al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia. Per la MMCompany invece firma OFFillusiON, Parafarnalia e Carmen Sweet.
Caro Emanuele, per iniziare, vorrei che tu aprissi il libro dei ricordi, ripercorrendo la tua scoperta dell’arte della danza, dagli insegnamenti alle prime emozioni in palcoscenico… Come si è creata questa passione che poi si è trasformata in professione?
Tutto è nato un po’ per gioco, in maniera naturale. Da sempre sono stato attratto da ciò che poteva essere spettacolo, musica, senza una vera distinzione fra teatro o danza. Persino davanti alla televisione mi sono perso molte volte imitando i passi proiettati nello schermo, all’epoca ancora in bianco-nero. Ho iniziato all’età di dieci anni a frequentare i corsi di danza, a Ferrara, e parallelamente a quelli di judo. Una strana combinazione. Di lì a poco ritrovarmi su un palco mi ha fatto capire che per me quello era il mio habitat natutale. Non avevo paura come altri di stare in scena, anzi mi ha sempre reso molto felice eseguire i primi passi. I sacrifici o le ore trascorse a studiare e muovermi, esprimermi con il corpo, in sostanza erano la maniera migliore di poter vivere e sentirmi libero. La svolta sicuramente è stata quella di arrivare poi a Firenze, nel periodo d’oro del “Balletto di Toscana” e, scoprire una realtà che dal punto di vista professionale ed educativo mi ha dato davvero tanto.
Sei nato nella splendida e storica Ferrara, negli anni della tua formazione che aria si respirava e cosa offriva a livello di danza e balletto?
Ferrara pur piccola mi ha fatto crescere il gusto di un’estetica intrisa di memorie e storia, di arte e di bellezza. Ho studiato all’Istituto d’Arte ma, il libro migliore era uscire per le strade medievali della città, percorrere le Mura, ritrovarsi davanti al Castello Estense, nel cuore del progetto Erculeo di Biagio Rossetti con il Palazzo dei Diamanti, o davanti alla Casa di Ariosto, al vecchio Ospedale (oggi Conservatorio di Musica) dove era internato il Tasso, davanti agli affreschi dei Mesi di Palazzo Schifanoia. Altro riferimento il Teatro Comunale. In quel periodo ho assistito a lavori potenti pieni di tecnica ma anche di estrema ricerca, molto ricercati e a volte fin troppo avanti – credo – per un pubblico come quello di Ferrara. Una forte Scuola che in maniera conscia-inconscia mi hanno intensamente segnato. Ho visto dai balletti di repertorio classico e neoclassico, ad esempio dell’ATERballetto con Elisabetta Terabust, o il Ballet National de Marseille con Roland Petit oppure a coreografie contemporanee che oggi fanno parte della storia della danza. Jorma Uotinen… Enzo Cosimi con le scene di Plessi, Carolyn Carlson, i primi lavori di Angelin Preljocaj… poi gran parte degli autori del teatro/danza tedesco (guarda caso adesso amici e colleghi) prime fra tutte Susanne Linke, Rheinild Hoffmann, Urs Dietrich, Ismael Ivo, Jhoann Kresnik, Pina Bausch, ma anche l’indimenticabile “Carmen” di Antonio Gades. Certo volendo poi proseguire la carriera come danzatore, era però necessario spostarsi in Scuole professionalmente più grandi e al passo con i tempi.
Hai danzato, in Italia, in celebri compagnie come quella della Fenice di Venezia e dell’Opera di Roma, che tipo di esperienze sono state e in quale modo ti hanno arricchito artisticamente?
All’epoca le realtà freelance in Italia erano praticamente ancora inesistenti a parte alcune piccole eccezioni. Lavorare come professionista ti obbligava ad avvicinarti agli Enti Lirici che per me sono stati una base e una forma successiva alla scuola, per migliorare e svezzare la mia presenza in scena. Lavorando in quel periodo in programmi e coreografie di repertorio ho iniziato ha godere dei sacrifici degli anni precedenti. Paganini, Fracci, Derevianko erano in palcoscenico all’epoca nei teatri Italiani. Un lusso poter vedere da vicino personalità così forti che ti davano consigli in sala prove quotidianamente. Una fonte di arricchimento per un giovane che a quel tempo iniziava a realizzare la sua carriera di danzatore. Certo l’unico problema rimaneva comunque un po’ quel senso di chiusura rispetto al repertorio dei teatri d’opera esteri, che aprivano in quegli anni le loro porte a coreografi contemporanei emergenti.
Poi sei andato all’estero e hai trovato fortuna a Dortmund e in Olanda danzando splendide creazioni di celebri coreografi. Cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia?
Non mi sarei mai aspettato di ritrovarmi all’estero. Per curiosità ho preso la valigia dopo aver ricevuto un’offerta da Dirk Elvert, allora Manager al Theater Dortmund. Già sentivo che Italia le sue offerte forse non erano in grado di soddisfare la mia voglia di andare avanti. Arrivare in Germania, un paese completamente diverso dal mio, all’inizio mi ha fatto riflettere molto. Mi ha fatto scontrare con una cultura e una lingua completamente diverse dalle mie. Lo stesso dal punto di vista lavorativo. Credo all’inizio di aver capito molto poco di quello che mi stava succedendo attorno. Abituato quasi solo ad uno stile accademico sono stato subito catapultato in un mondo nuovo a me sconosciuto. Ma senza saperlo è stata una svolta nella mia carriera. Potevo vedere, incontrare e soprattutto scambiare idee quotidianamente, non solo con danzatori, ma anche con attori, cantanti, musicisti, registi, scenografi e costumisti. Lavorare ed iniziare a cimentarmi in coreografie di Amanda Miller appena uscita dal “Ballett Frankfurt” di Forsythe, dell’inglese Jean Renshaw o di Rui Horta, ad esempio, hanno contribuito a farmi scoprire un altro modo di usare il corpo ma soprattutto la mente. Quei primi anni all’estero mi hanno aiutato a dare “spazio” e tirare fuori quella che era la mia personalità di interprete, la mia opinione di esecutore. Tutto questo condiviso con colleghi davvero speciali. Arrivare successivamente in Olanda in “Introdans” è stato il coronamento di quegli anni. All’epoca in Compagnia eravamo quarantacinque danzatori. Lì ho iniziato ad interpretare lavori di Hans Van Manen, Jiri Kilian, Mats Ek, Nacho Duato, William Forsythe, Karole Armitage, Heinz Spoerli e altri e, presentarli in tour che si spostavano in teatri dall’Europa all’Asia sino a Broadway. Ammetto a malincuore che l’Italia per un attimo l’avevo lasciata da parte.
In seguito, sei passato dall’essere un danzatore al lavoro di coreografo. Per molti ballerini è uno sviluppo graduale e completo che avviene in modo del tutto naturale. Per te cosa ha significato e da dove è nata questa esigenza?
Sì essere coreografo si è manifestato in maniera naturale. Mi piace parlare con la gente, condividere e cimentarmi nella composizione. Forse coreografo lo sono sempre stato. Lo possiamo essere in tanti. Penso sia importante riconoscerlo e scoprirlo. Già da piccolo a scuola o a casa mi divertivo a far ballare, recitare amici, compagni o tutta la famiglia. Di certo sono convinto del mio lavoro e non credo avrei potuto fino adesso trovare miglior modo per esprimermi.
Quando hai iniziato la tua carriera di danzatore sapevi già di voler diventare coreografo in seguito?
No, ma credo che il palcoscenico, il teatro, lo spettacolo in sé era diventato comunque il mio obiettivo.
In assoluto qual è stato il tuo primo lavoro in questo ruolo creativo e dove è andato in scena?
“Last Resort” il mio primo lavoro creato e presentato al “Theater Dortmund” alla fine degli anni Novanta, costruito per 5 interpreti e 100 pezzi di saponi di Marsiglia bianchi, su musica di G. Briars. Un bel ricordo fatto di tensione e di moltissima emozione.
Da dove trai ispirazione per le tue coreografie?
Da molte cose. Prima di tutto dalla realtà. Credo che ogni uomo o donna che si incontri sulla strada possa essere fonte di ispirazione. Mi immagino o invento storie. Ognuno di noi porta dentro una sua storia che a volte non conosciamo e che non scopriremo mai. Ma questo mi attira molto. Poi sicuramente la lettura e l’arte visiva in generale. Spesso mi è difficile, a causa del poco tempo libero, di assistere ad altri lavori di teatro o di recarmi al cinema, seppure devo dire alcuni lavori andrebbero visti inevitabilmente. Ma mi ricarico leggendo o a volte scoprendo musei e gallerie d’arte nelle città in cui mi trovo.
C’è un filo invisibile che fa da comune denominatore in tutti i tuoi lavori oppure sono completamenti slegati uno dall’altro?
I lavori tematicamente in molti casi si distaccano uno dall’altro. A volte mi diverte anche dedicarmi a quelli apparentemente lontani uno dall’altro, ad esempio produzione dedicate ai bambini. Anche se cerco di sviluppare temi che mi lascino diverse possibilità di approfondimento concettuale. Ad esempio dal 2011 fino al 2014 ho lavorato su temi, come dicevamo, dedicati ai miti greco-romani. In questi ultimi tre anni invece, ricchi di collaborazioni, i lavori sono stati rivolti ai pregi e difetti della specie umana sotto il ciclo “Habit Cycles”. Ogni idea, ogni tipo di studio competitivo o anche registro, pur preservando una sua natura e storia diversa, porta avanti continuamente un piccolo elemento o citazione che si ingrandisce o rimpicciolisce a seconda dei casi, ma che lega e avanza nella mia ricerca di autore.
A tuo avviso quanto è importante la musica ma anche la narrazione nelle tue creazioni?
La musica, in particolare nei miei lavori degli ultimi anni, assume un ruolo fondamentale nell’intero complesso della messa in scena e della ricerca coreografica. Non nascondo che solitamente nei progetti inizio a lavorare partendo dal corpo, dal respiro e dal ritmo che i danzatori creano nel loro insieme. La musica in questo caso viene creata, anzi quasi indossata in un momento successivo. Dal 2011 da quando ho iniziato a collaborare con compositori come Han Otten, Stefan Bohne, Thomas Vansing la musica è diventata come la narrazione di temi, veicolo drammaturgico. La fortuna di poter presentare in scena lavori con sonorità composte ed eseguite dal vivo mi sta aiutando a portare avanti scelte e soggetti che influenzano, oltre che le mie idee, anche l’esecuzione dei performer e del pubblico che vive lo spettacolo in maniera molto più “ravvicinata”. Sono assai legato alla musica classica soprattutto a quella barocca e, al contempo ad un tipo di musica elettronica. In lavori come “Daedalus//Dreams” o “ARIADNEamore” ad esempio la musica di Telemann o di Monteverdi interpretata dai solisti dell’Orchestra Filarmonica di Duisburg ha creato un vero dialogo con suoni e intrusioni metalliche delle nuove composizioni elettroniche, anche loro eseguite dal vivo. È bello vedere come un violino vicino ad un Dj possano coesistere e raccontare, descrivere, rendere visibili con i corpi in movimento, scene che a volte possono essere reali, altre volte più astratte. Mantengo comuque sempre un filo narrativo, sotterraneo, nei lavori. Creare un subtext nella mia mente e in quella degli interpreti, ci aiuta a tracciare un filo logico nel discorso. Mi piace però che sia una narrazione o un modo di raccontare, quello esposto, aperto e libero agli occhi del pubblico. Mi spiego meglio: anche se a volte possono sembrare misteriosi i mondi e le persone che abitano la scena, tendo a richiedere ad ogni spettatore di usare la propria fantasia, creare la sua storia, anche se alla fine diventa diversa dalla mia. In quest’arte del movimento, sottolineo che la fantasia di ognuno di noi gioca un ruolo essenziale.
Quali consigli ti senti di dare ai giovani che desiderano diventare coreografi?
Di essere sé stessi. Di non avere paura di ricercare, di confrontarsi e di lasciarsi andare nella realizzazione delle proprie idee e con il proprio corpo. Solo così cercando e mettendo alla prova noi stessi possiamo crescere e realizzare la nostra visione. Una visione che credo sia davvero essenziale possedere. Oggigiorno siamo facilmente sottoposti a scelte che ci vengono imposte dal mercato… un vero artista dovrebbe seguire le proprie esigenze, idee e anche sensazioni senza doversi strategicamente sposare con quelle che sono le mode a volte dettate dagli operatori e dai festival. Ad ogni giovane coreografo consiglierei di capire e mantenere la propria identità. La danza e l’arte in generale ci insegnano a non fermarci, a non smettere mai di voler scoprire, di essere curiosi. Prima di tutto nella vita, nel presente e nel passato. Troppo spesso sento dire che conoscere le nostre radici non serve… credo invece che solo in questo modo si possa imparare quotidianamente a migliorarsi.
Ogni coreografo ha un suo stile ben definito e riconoscibile… Nel tuo caso come definiresti il complesso di scelte e mezzi espressivi che costituiscono l’impronta artistica di Emanuele Soavi?
Autodefinirsi non è facile. Non mi piace autocodificarmi. Mi diverto a sperimentare sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista multidisciplinare, molti dei percorsi intrapresi in questi anni. Chiamerei il mio lavoro iconografico. Considero tuttora importante portare in scena lavori che rivelino allo spettatore livelli diversi. Da quello prettamente incentrato sul corpo, quello più umano fatto di sensazioni ed emozioni. Voglio trasmettere allo spettatore mondi e modi diversi e, poi …quello più visionario a volte considerato da alcuni più complesso che si dedica a fonti o riferimenti di ispirazione tratti dalla storia, dalla filosofia, da tutta l’arte in generale. Gli oggetti e i movimenti esposti/disposti davanti al pubblico creano un vocabolario, un catalogo iconografico. Dal basso verso l’alto. Mi piace molto spesso disporre sul palco una scala ad esempio, o tessuti che rimangono dimenticati sul suolo come ritagli di pelle. Memorie. Movimenti che richiamano il volo o cadute e attrazioni verso il basso. Comunque sempre mi interessa dare stilisticamente priorità ad un movimento creato da forti contrasti espressivi: grafico-pedestri, virtuosi-spontanei. Mi piace cercare di scoprire filoni di lettura che possano avvicinare un pubblico che non sia solo quello abituato a vedere la danza o la performance.
Ad esempio com’è nato il celebre lavoro “PANsolo”?
Certo la ricerca in partenza mi ha spinto a ristudiare e capire meglio il grande mito greco-romano della figura del dio Pan ma, anche nella storia della danza di quel celebre e così contestato lavoro di Diaghilev interpretato da Nijinsky: Après-midi d’un Faune. La successione del mio lavoro, partendo da un’analisi più estetica, si è poi sviluppata traendo spunto da molti di quelli che considero siano miei aspetti autobiografici insieme anche a particolari peculiari di questo archetipo. In realtà la storia di Pan la si conosce poco. Un dio “strano” mezzo capro mezzo uomo che per un po’ viene tenuto nell’Olimpo come intrattenitore degli altri dei. Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio” lo descrive molto bene quando dice “canta canzonette ai banchetti”. Poi tutto d’un tratto il suo corpo e il suo carattere non vengono più accettati. Viene mandato così sulla terra ma, anche qui viene considerato un mostro, un essere sconosciuto fautore del PANico. Per questo non gli rimane che vivere solitario nella natura, nascosto nei boschi, alla ricerca continua di amore. Amore che nemmeno le sue ninfe riusciranno ad esaudire. Pan non sa amare, perché il suo istinto caprino e irrazionale lo rende violento. Nelle “Metamorfosi” di Ovidio, Echo viene dilaniata, Sirinx salvata dagli stessi dei e trasformata in una canna di bambù. Da questa Pan la ricorderà per sempre facendone un flauto e suonandolo. Questi modi estremi di essere e di reagire, questi estremi connubi tra armonia, musica, suoni, natura, violenza, follia, irrazionalità ma soprattutto queste emozioni sono le cose che mi hanno attratto particolarmente. Con questo personaggio ho scoperto, sia come autore, sia come solista, lati di me che non conoscevo. Qualcuno lo ha definito un bizzarro connubio tra eleganza e forza, un modo di essere in palcoscenico che ancora non era venuto fuori e mi ha fatto trovare e capire molte cose di me, nel senso di quello che mi convince approfondire come autore e che sto portando avanti nei miei nuovi lavori. Pan lo ritengo assolutamente un personaggio contemporaneo. In scena l’ho voluto rendere a volte particolarmente ironico, poetico ma anche scurrile. Questo solo, mi ha dato la possibilità di affrontare temi chiave dei nostri giorni ad esempio l’integrazione, la solitudine, la necessità di dialogo e comunicazione: “la voglia di amare”. Pan addirittura si potrebbe arrivare a considerare uno dei primi esempi di “terrorista” nella storia dell’arte greca. Presento tra l’altro, nel mese di maggio 2017 in Italia, a Roma, proprio questo lavoro al Teatro Eliseo con musiche dal vivo eseguite da Stefan Bohne, mio caro collaboratore artistico.
Oggi la tua seconda casa è Colonia, come si vive in questa città sotto il profilo sociale, culturale ed artistico?
La città di Colonia è diventata la mia seconda casa, intanto perché mi ha accolto, dal punto di vista professionale dandomi la residenza come coreografo dal 2006; poi perché la considero ricca di fermenti culturali, di stimoli ma anche di contraddizioni. Una città che mi offre numerosi scambi di dialogo a partire come dicevo dall’ambiente musicale, ma anche da quello artistico in generale. Siamo vicini al confine con Olanda e Belgio. Si mescolano culture diverse da quelle mediterranee fino a quelle del nord europa. Gli artisti impegnati nella danza sono davvero tanti. Pur creando concorrenza questo crea anche una grande fonte di scambio e di confronto. Una forte energia. E poi per me Colonia rappresenta una città che nella regione Nord Rhein Westfalia mi ha donato la possibilità di frequentare teatri vicini dove hanno preso vita lavori di maestri importantissimi, come Kurt Jooss ad Essen nella Volkfangschule, a Wuppertal di Pina Bausch, a Bremen Susanne Linke.
Passo dopo passo è nata anche la tua compagnia “Emanuele Soavi incompany”. Qual è la sua peculiarità e cosa rende speciale i tuoi danzatori?
Siamo una Compagnia fatta di persone molto diverse tra loro; sia mentalmente, che fisicamente e caratterialmente. Mi piace che ognuno dei miei collaboratori abbia una sua peculiarità diversa uno dall’altro. Che ognuno sia ricononoscibile al pubblico per la propria personalità. È vero però che proveniamo quasi tutti da teatri, sia come danzatori ma alcuni anche come performer o attori. Solitamente i danzatori di “incompany” vengono riconosciuti come forti interpreti tecnicamente ma, anche speciali per la loro capacità di cimentarsi nei diversi linguaggi espressivi.
Prossimamente porterai in scena diverse e nuove creazioni sia in Italia sia all’estero. Nella tua terra presenterai “Cigni//Swan”, con un emblematico titolo che rimanda subito alla storia della danza e del balletto. Mi vuoi dare qualche anticipazione?
A maggio con piacere presenterò al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia con Agora Coaching Project diretta da Michele Merola una mia versione del “Lago dei Cigni”. Visti gli interpreti molto giovani l’idea non è quella di portare in scena la storia o la trama classica del balletto di repertorio se non quella di trattare del momento in cui la trasformazione tra essere umano e animale prende atto… e con questa metamorfosi aperta che voglio ricercare, insieme ai ragazzi, quelli che sono temi cari a loro: integrazione, convivenza e l’accettazione in un momento di evoluzione e transito personale nel cammino della vita.
Tra tutti i grandi coreografi del passato a chi sei maggiormente legato?
Direi da un lato a Balanchine per la sua incedibile forza, contemporaneità e qualità di composizione. Dall’altro Laban per il suo sistema di ricerca a dir poco fonte di ispirazione inesauribile. Anche se devo dire cerco sempre di trovare una mia strada nel momento in cui devo creare. Dev’essere qualcosa che mi accende e identifica. Ogni progetto si ispira forse sempre a una fonte diversa.
Mentre dell’attuale scena sia nazionale che internazionale a chi rivolgi il tuo sguardo con più interesse?
Cerco di guardare il più possibile. Ogni forma di spettacolo mi affascina e mi attira in ugual modo. Sono tanti i lavori di coreografi e non solo che attualmente ritengo interessanti. Dalla scena Belga a quella più virtuosa del Canada o a quella concettuale e discussa “danza” in Europa, soprattutto in Germania.
In veste di danzatore, quali sono stati i momenti che ti hanno particolarmente segnato e contraddistinto?
Lavorare ed interpretare come dicevo in Olanda lavori di Kilian, Ek e soprattutto di Forsythe mi hanno veramente fatto percepire la danza in un modo diverso. Non solo dal punto di vista estetico o tecnico, ma proprio dal punto di vista culturale e umano. Coreografi da cui posso dire di avere imparato ed appreso ad amare ed essere orgoglioso del mio lavoro. Ad avere rispetto delle persone, della danza.
Che tipo di evoluzione ha avuto il tuo lavoro negli anni?
Riuscire e voler rappresentare con il movimento, emozioni e sentimenti dell’uomo di oggi in palcoscenico credo, sia stata la mia evoluzione. All’inizio nei miei primi lavori privilegiavo la forma, l’estetica; oggi non mi accontento più solo di avere un’immagine. Dopo questi anni di esperienza il vantaggio è quello di possedere e raggiungere una maturità che ti diano sicurezza nel creare. Questa evoluzione ha fatto progredire ed articolare quelli che erano i primi segni tracciati nello spazio. Un’evoluzione che riconosco anche dal punto di vista compositivo in quel dialogo che cerco e che voglio far partire dall’interno del performer con se stesso e poi, con gli altri oggetti o persone esterne che lo circondano. Evoluzione anche nella voglia e la non paura di rappresentare l’ironia e la comicità propria dell’essere umano di oggi. A volte i miei personaggi sembrano afflitti, persi. Poi è proprio quella esasperata malinconia che li porta a diventare clown di se stessi. Qui citerei Roland Barthes che ci regala un bell’esempio nel suo frammento di un discorso amoroso: “e alla fine siamo tutti commedianti”.
Quali sono stati i suoi maestri, non solo materiali ma anche ideali?
E qui devo sorridere un po’: i maestri del Rinascimento italiano, i filosofi greci, quelli contemporanei: Roland Barthes, Gilles Deleuze… Judith Buthler.
In conclusione, carissimo Emanuele, la danza e l’arte in senso lato, che messaggio culturale dovrebbero trasmettere ai giovani del domani come monito alla “bellezza”?
La bellezza risiede nella concessa libertà individuale di potersi esprimere e di poter realizzare in maniera visiva le proprie opinioni ed emozioni. Non credo esista qui il bello o il brutto, tutto diventa soggettivo. Ripeto è l’essere se stessi che crea la maniera migliore di portare avanti la bellezza. La scena e il teatro siamo in realtà noi, noi uomini, noi personaggi, nel tempo, senza lacci in uno spazio incredibile dove tutto è possibile anche se apparentemente improbabile. Si impara sempre a vicenda e, ancora credo di dover imparare e di avere la fortuna di farlo attraverso la mia professione. Ho il privilegio di seguire un percorso costantemente in dinamica e di trasformazione costante. Possedere un fine certo è importante. Un arrivo, un traguardo! Raggiungere il bello non è facile, ti pone delle sfide, ma credo che aver voglia di sfidarsi, soprattutto con se stessi, faccia parte di questo gioco: dell’Arte, della voglia di Vivere.
Michele Olivieri
Foto: Joris Jan Bos
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