Un corpo iconico per ragionare su che cosa sia un corpo e, di conseguenza, che cosa siamo e in che modo esistiamo noi. L’artista belga ha portato a Venezia, per la Biennale Danza, la propria installazione filmica “Not Once”, interpretata dal leggendario ballerino Mikhail Baryshnikov, la cui immagine viene manipolata, duplicata, sezionata, utilizzata per creare la drammaturgia del racconto, in una parola viene usata.
Il lavoro di Fabre è potente e l’interpretazione di Baryshnikov ne è il motore centrale, tutto teso a essere qualcosa, a performare qualcosa che però, in fondo, sembra essere alla fine, come ha detto l’artista, solo la consapevolezza che il nostro corpo esiste esclusivamente nel modo in cui altri lo guardano. E senza l’occhio esterno non rimane nulla, solo una maschera che pian piano il tempo sgretola, nonostante il racconto, inesausto, che da quel corpo continua ad arrivare allo spettatore. Come se la voce venisse dallo spazio profondo, da un cosmonauta disperso tra le stelle. Stelle che però si rivelano essere molto più vicine, si rivelano appartenere al nostro stesso mondo. Perché la distanza parte da dentro di noi. Da alcuni bisogni fondamentali.
Così, in quella disperata ricerca della fotografa, della sua creatrice, il modello-uomo esprime anche la sua tensione amorosa verso la donna, che resta però irraggiungibile, mentre la sua anima probabilmente si è persa lungo i sentieri di quello stesso desiderio.