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Rudolf Nureyev: perché veniva chiamato “il tartaro volante”?

Quando Rudolf Nureyev si lanciava in aria, sembrava che la gravità perdesse validità. Il pubblico tratteneva il respiro, sospeso con lui in una frazione di eternità.

Non era solo un salto: era una dichiarazione d’indipendenza. Da uomo. Da artista. Da figlio dell’Asia e simbolo dell’Occidente. E fu proprio per questo che il mondo iniziò a chiamarlo Il tartaro volante.

La stampa europea lo coniò con romanticismo quasi orientaleggiante. Tartaro evocava qualcosa di primitivo, fiero, indomabile. Una parola che funzionava come etichetta poetica per una figura fuori dai canoni.

Nato in un treno transiberiano, cresciuto nella steppa e addestrato con rigore sovietico, Nureyev non era solo un ballerino: era un uragano.

Il termine “volante” era, al contrario, perfettamente esatto. Il suo corpo non danzava: si librava. Chiunque abbia visto i suoi salti — che sfidavano le leggi della fisica con una sospensione surreale — capisce che non si trattava di semplice tecnica.

C’era qualcosa di più. Come se ogni battito d’ali danzante fosse un atto di fede nella possibilità di elevarsi oltre il corpo e il tempo.

Nureyev non fu mai addomesticabile. Nel 1961, quando decise di disertare durante una tournée del Kirov a Parigi, la sua fuga non fu solo un gesto politico: fu un’evasione spirituale. Lasciò la madrepatria, ma trovò la patria dell’anima nella libertà artistica.

Il “tartaro volante” non poteva restare confinato da frontiere ideologiche o coreografie di regime. Il mondo occidentale lo accolse come un profeta della danza.

Si unì al Royal Ballet di Londra, danzò con Margot Fonteyn in un sodalizio leggendario e trasformò completamente il ruolo maschile nel balletto classico. Prima di lui, l’uomo era spalla. Con lui, diventò protagonista.

Anche quando negli ultimi tempi il corpo iniziava a tradirlo, Nureyev continuava a volare attraverso la sua creatività.

Oggi, la figura di Nureyev resta avvolta in quell’aura mitologica da cui era nato il soprannome. Ma se vogliamo capire davvero chi fosse il tartaro volante, non dobbiamo guardare solo ai suoi salti, ai costumi dorati e alle ovazioni parigine o milanesi.

Dobbiamo ascoltare il silenzio sospeso tra l’elevazione e l’atterraggio. Quell’attimo in cui l’anima dell’artista tocca il cielo.

Michele Olivieri

Disegno di Ferdinando De Sarro

www.giornaledelladanza.com

©️ Riproduzione riservata

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