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Trent’anni dalla morte, il 6 gennaio del 1993 ci lasciava Rudolf Nureyev

Rudolf Nureyev, non è stato soltanto il più grande ballerino del novecento, ma anche l’artefice di una profonda trasformazione della danza classica, ma, fuori scena, l’icona di un modo di vivere ribelle, libero e anticonformista. Ha segnato profondamente il costume a metà del 900 mentre il mondo occidentale usciva dai pregiudizi e dall’ipocrisia del dopoguerra. Sicché oggi chiunque calchi un palcoscenico non può dimenticare il segno da lui lasciato, con il quale deve inevitabilmente confrontarsi. La Morte di Rudolf Nureyev, il 6 gennaio del 1993, aveva 54 anni,  ha creato nel mondo della danza un vuoto immenso, che difficilmente sarà colmato.

E’ stato spesso definito un “genio della danza” e anche “l’erede naturale di Nijinsky”, il grande danzatore russo degli inizi del XX secolo e innovatore della coreografia. Nureyev, in effetti, esaltò la figura del ballerino maschio, così come aveva fatto Nijinsky mezzo secolo prima.

Nel balletto classico, l’uomo aveva un rilievo secondario, rispetto alla ballerina; la sua funzione era semplicemente quella di esaltare la bravura della donna, facendola volare più in alto possibile. Nureyev non accettò questa differenza tra i ruoli, con lui la danza e la tecnica maschile acquistarono una nuova e diversa fisionomia, un’importanza pari, se non superiore, a quella della danza femminile. Disse non a caso: “Ho sempre pensato che Pas de deux volesse indicare danza per due”.

Chi era Nureyev, come arrivò a tale successo, come divenne un mito?

La sua storia ha dell’incredibile e sembra quasi uscire da un romanzo ottocentesco, da una qualche fiaba del passato. Nacque il 17 marzo del 1938 su un treno della Transiberiana; già: proprio su un treno della Transiberiana; quasi una premonizione di quella che sarebbe stata la sua vita futura, piena di viaggi in ogni parte del mondo, da un teatro all’altro, ovunque trovasse un pubblico in attesa della sua esibizione. “Quando sarò morto, mi erigerete una statua: mi si vedrà mentre mi alzo da una sedia con due valigie, pronto a partire. Quella sarà la storia della mia vita”.

La madre Farida mise al mondo il piccolo mentre era in viaggio insieme alle tre figlie, da Ufa a Vladivostok, dove lavorava il padre Hamet, militare di carriera. Così Rudolf era figlio di genitori tartari: Non so spiegare esattamente cosa significhi per me essere tartaro e non russo, ma sento la differenza nelle mie vene. Il sangue tartaro scorre più velocemente e, in qualche modo, è sempre pronto a bollire. Siamo anche più simpatici dei Russi, più sensuali; siamo un curioso miscuglio di tenerezza e di brutalità. I tartari sono più passionali, più combattivi,  modesti ma al contempo  astuti come volpi; l’uomo tartaro è un animale grazioso ma complesso, questo è quello che sono io”.

La sua famiglia era povera; ciò che il ballerino ricordava più precisamente della propria infanzia era la fame. “Di quei tempi so una cosa sola,la fame generale, il desiderio di mangiare qualcosa di diverso da una patata. Magari non era così tragico, visto che siamo sopravvissuti. Ricordo anche un’altra cosa: la paura dei lupi; io non li ho mai visti, ma tutti dicevano che giravano intorno alle case e avvolte mangiavano i bambini. Ciò serviva a non farci allontanare troppo, evidentemente”.

Nureyev aveva una forte ammirazione per la madre, donna forte, intelligente,  sempre pronta a  sacrificarsi per i figli, una grande lavoratrice. Fu lei a portarlo a teatro per la prima volta, nel 1943, quando Rudolf aveva solo 5 anni: “Pensai che tutto ciò che vedevo era magico. Diventerò un ballerino”.

Iniziò la scuola a sei anni a una classe di danza folkloristica; a casa cantava e ballava senza fermarsi. “Passavo molto tempo ad ascoltare musica, mi distraeva, mi faceva sognare, e talvolta dimenticavo di fare i compiti, o li facevo male”. In casa mi dicevano: “Studia, non sognare, vai avanti, non chiuderti in te stesso”. “E’ la solita storia, sarà capitato anche a voi perché i genitori non vi capivano”.

Il padre lo voleva laureato, chimico o ingegnere; voleva un figlio che onorasse la patria e ripagasse il governo con un lavoro positivo; voleva che andasse a caccia con lui e tutte le volte che lo vedeva ballare lo picchiava. La madre e la sorella Rosa (che poi avrebbe frequentato l’università e dava a Rudy i libri che amava) tuttavia lo appoggiavano.

I suoi maestri si accorsero presto del suo talento e lo inserirono in alcuni spettacoli della scuola. A 11 anni fu scoperto da Ana Udeltosova , ballerina dei Balletes Russes, di Diaghilev, che insegnava in quel periodo a Ufa ad un gruppo amatoriale di bambini. La Udeltosova giocò, nella vita di Nureyev, il ruolo della fata buona e lo istruì con i primi rudimenti del balletto classico.

Il giovane ballerino mirava al massimo, ossia ad entrare nella prestigiosa scuola del Kirov. Vi riuscì, in soli tre anni raggiunse il diploma e vinse contemporaneamente il primo premio al concorso nazionale di balletto classico che si teneva a Mosca in quell’anno (1958), danzando il Pas de Deux del “Corsaro”, come rappresentante del Kirov. Di quell’evento esiste un filmato diffuso in tutto il mondo, che documenta la nascita di una stella.

Negli anni trascorsi nella scuola del Kirov fu fondamentale per lui l’insegnamento ricevuto dal maestro Pushkin, il quale corresse i difetti d’impostazione e la carenza di stile che gli avevano reso difficile il primo periodo nella scuola.

Nureyev lo ricordava così: “Per me è stato un padre, senza di lui avrei potuto fare ben poco; gli giurai riconoscenza eterna e l’averlo perduto, quando ho scelto di restare in occidente, mi ha causato un autentico dolore”.

Pushkin scoprì in lui la dote rara dell’interprete e dell’attore, vide in lui un danzatore capace di esprimersi non solo con il corpo ma anche con l’anima. Per Nureyev, in effetti, la tecnica non era altro che il supporto per una meditazione sulle persone, sulla musica, sul carattere. Egli non era un grande virtuoso, ma era un vero artista; con lui l’arte della danza si unì all’arte della interpretazione.

Disse: “Io lavoro e ballo con le mie energie mentali, miei muscoli sono solo un mezzo per esprimermi”.

Entrato nel corpo di ballo del Kirov come primo ballerino, suscitò subito simpatia alla ballerine principali, che lo preferivano come partner ad altri colleghi poiché dava fiducia e sicurezza, sapeva portare bene la ballerina. In particolare danzò con Natalia Dudynskaja, che gli insegnò il classicismo, la musicalità, il senso della sospensione. I rapporti con il Kirov, tuttavia, s’incrinarono presto.

Nureyev era uno spirito indipendente e non poteva accettare né sottostare alle regole ferree di quell’ambiente; inoltre avvertiva il peso di una situazione stantia, di chiusura ad un mondo occidentale in cui, a differenza della Russia, c’erano sperimentazioni nel campo della danza classica  e in quella moderna. Nureyev era convinto di poter migliorare tramite contatti e confronti con il mondo esterno. “Ballavo poco al Kirov, tre o quattro volte al mese e sempre le stesse cose”.

Così con le prime tournées  all’estero crebbe inevitabilmente il suo desiderio di reagire, finché il 17 giugno del 1961, durante una tournée del Kirov a Parigi, Nureyev si decise a restare in Occidente e chiese asilo politico. Fuggi in questo modo dalla Russia  e gli fu concesso di tornarvi solo molti anni dopo, nel 1989.

Coraggiosamente aveva voluto restare a Parigi, dove tra l’altro sempre nel 1961 aveva ricevuto il premio Nijinsky dalla Université de la danse. “ Non avevo niente con me, solo pochi spiccioli in tasca, nient’altro e nessuna offerta di lavoro; potevo contare solo sul mio corpo. Non avevo altro che il mio corpo e il talento che mi era stato riconosciuto da tanti”.

Il primo ad accoglierlo in una compagnia fu Raimondo De Larrain, direttore della compagnia del marchese di Cuevas; una delle étoiles era Rosella Hightower, che poi raccontò: “Egli ci diede una nuova visione della danza, ci trasmise una specie di scarica elettrica. Dopo il suo arrivo tutto ciò che facevamo sembrava datato, vecchio. Capii che per il balletto stava iniziando una nuova era”.

Nureyev poco dopo si trasferì in Danimarca, da Erik Bruhn, suo modello e suo idolo, il danseur noble più ammirato del mondo del balletto. Voleva conoscerlo per arricchirsi, per crescere e così accadde. In Danimarca Nureyev lavorò con Vera Volkova, che acuì in lui il senso del bello e gli insegnò a trasformare la sua atleticità, il suo virtuosismo, in un elemento di superiore bellezza. Rudolf capì l’importanza di essere al di sopra degli stili. “Se dovessi definire me stesso direi che Nureyev è un grande stilista, che sa trovare lo stile giusto in ogni balletto: una cifra interpretativa che resti impressa nella memoria… Altri forse hanno una tecnica acrobatica maggiore della mia o sono più belli: ma credo che sia molto più  importante saper usare i propri difetti, i propri limiti per fare dell’arte”.

Subito dopo fu invitato a Londra da Margot Fonteyn, vera stella della danza inglese, Nureyev accettò e nacque la coppia di artisti più illustre della seconda metà del XX secolo. La collaborazione con Dame Fonteyn era una delle cose di cui Nureyev andava più fiero: “Ballare è come percorrere insieme lo stesso sentiero, la cosa più importante è il modo in cui si balla, ma quando si balla con la Fonteyn c’è un unico obiettivo e una sola visione delle cose, non c’è niente che ci divida”.

Margot aveva vent’anni di più di Rudolf e l’incontro con lui le diede il coraggio e il desiderio di proseguire. Danzarono insieme “Giselle” e quello spettacolo passò alla storia come uno degli eventi più memorabili dei nostri tempi; insieme trovarono un accordo su mille particolari da rifinire. Tra i due nacque un legame profondo, che li tenne uniti sulla scena per molti anni. Per loro fu creato dal coreografo Frederik Ashton un balletto, “Marguerite and Armand”, ispirato alla “Signora delle Camelie” di A. Dumas e costruito sul loro temperamento, sulla loro sensibilità, sulla loro intelligenza. Divenne un trionfo.

Margot così parlava di Nureyev: “Non ho mai incontrato un professionista simile; pretendeva la massima precisione anche dagli altri. Certe sue osservazioni erano forse sgradevoli ma azzeccatissime; mi obbligava con dolcezza a ripensare al mio repertorio”.

L’intervento di Nureyev sul repertorio fu in effetti determinante per il futuro della danza. Si può dire che egli tolse tutto ciò che era vecchio e non aveva più per lui ragion d’essere      (trucchi pesanti, parrucche, gesti di maniera privi ormai di significato) ma soprattutto che egli entrò nella psicologia dei personaggi, dando ad essi un ruolo nuovo. Tutto questo si accentuò quando Nureyev iniziò a dedicarsi alla coreografia: rilesse i classici e ne diede le sue versioni, ancora oggi riprese e utilizzate in molti teatri del mondo, in particolare all’Opéra di Parigi, di cui egli fu direttore dal 1983 al 1990.

Nureyev, ballò in tutto il mondo, con moltissime partners, lavorò con i migliori coreografi a lui contemporanei, cimentandosi anche nella danza moderna, in nuove sperimentazioni (G. Balanchine, R. Petit, M. Grahm, M. Béjart, G. Tetley, etc…), sempre con gran successo. Si accostò anche al cinema, interpretando Valentino nell’omonimo film di Ken Russel ed ebbe persino qualche esperienza come direttore d’orchestra. Sulla sua vita privata si ebbero sempre poche notizie, ma era giusto così. “Consideratemi per quello che sono, un ballerino; non è lecito entrare nel privato di un artista; l’uomo ci penserà Dio a giudicarlo”.

Avrebbe voluto morire sulla scena, ma non ci riuscì: la malattia lo portò via con sé. Negli ultimi anni amava rifugiarsi nell’isola di Li Galli davanti Positano, da lui acquistata.

“La danza è tutta la mia vita. Esiste in me una predisposizione, uno spirito che non tutti hanno. Devo portare fino in fondo questo destino; intrapresa questa via non si può tornare indietro. E’ la mia condanna, forse, ma anche la mia felicità. Se mi chiedessero quando smetterò di danzare, risponderei: quando smetterò di vivere”.

Sara Zuccari

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