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Uno sguardo “accademico” sulla danza: intervista a Elena Cervellati

Uno sguardo “accademico” sulla danza: intervista a Elena Cervellati

 

Professore associato dell’Università di Bologna presso il Dipartimento delle Arti, Elena Cervellati è una delle maggiori studiose ed esperte in campo accademico della storia della danza, indagata a tutto tondo dal balletto ottocentesco sino alle più contemporanee creazioni performative. Partendo, infatti, da una tesi di dottorato incentrata su Théophile Gautier, il percorso accademico della prof.ssa Cervellati ha toccato tappe legate a nomi celebri come Marie Taglioni, Les Ballets Russes, Anne Teresa De Keersmaeker, Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, nonché Kazuo e Yoshito Ōno. Nel Dipartimento delle Arti Elena Cervellati insegna “Storia della danza e delle arti del movimento” per il corso di laurea Dams e “Teorie e poetiche della danza” per il corso di laurea magistrale Discipline della Musica e del Teatro. È membro dell’associazione italiana AIRDanza e della society statunitense SDHS. Cura la sezione danza della stagione annuale del Centro La Soffitta a Bologna dal 2010, nonché l’Archivio Kazuo Ōno dal 2002.

Partiamo dalla sua tesi di dottorato incentrata su Théophile Gautier e la “danse pour la danse”. Come mai ha scelto di fare ricerca su tale argomento? E come mai negli anni Duemila, quando ha svolto il suo dottorato di ricerca, ha sentito il bisogno di guardare al passato nei suoi studi?

Nel momento in cui ho dovuto precisare quale argomento sviluppare per la mia tesi di dottorato, ho deciso di optare per questo in virtù del fatto che, negli stessi anni, gli ambiti di ricerca del Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, in cui mi andavo a collocare, trattavano molto poco di quel preciso periodo storico, concentrandosi maggiormente sul Novecento. Sebbene fosse più comune perseguire un filone contemporaneista nell’ambito delle ricerche portate avanti all’interno del Dipartimento, io decisi di proporre questo tema più legato al passato, scelta assai meno sorprendente in altri contesti accademici. A prescindere dall’elemento “strategico” della mia proposta, il fine primario è stato quello di affrontare un argomento poco sviluppato che, proprio perché riguardante il passato, si è rivelato essere molto formativo per il mio percorso. A mio avviso, un percorso di ricerca di questo genere può essere formativo per qualunque studioso, conferendo una maggiore solidità e al tempo stesso una più ampia capacità  di sguardo verso il presente, verso la danza di oggi. Guardando, infine, proprio a Théophile Gautier, posso dire che la scelta è stata dettata da una mia vicinanza d’interessi e di sensibilità all’ambito culturale francese – di così radicale importanza per la storia della danza – e in particolare a questo intellettuale. Avvicinarne la figura, la personalità e le attività, nonché la sua collocazione nel tempo e nell’ambiente in cui visse, mi ha permesso di avvicinare il mondo del balletto ottocentesco cogliendone linee estetiche pregnanti, peculiari forme di concretizzazione spettacolare, modalità di lavoro dietro le quinte.

Nell’insegnamento “Teorie e poetiche della danza”, facente parte del corso di laurea magistrale in Discipline della Musica e del Teatro, lei affronta prevalentemente il tema della scrittura per la danza, tra i cui vari exempla annovera quello del libretto. Secondo lei, a tutt’oggi si dovrebbe ripristinare l’utilizzo di tale documento, tanto per il balletto quanto per la danza contemporanea?

Ho più volte proposto, negli ultimi anni, agli studenti del Corso di laurea magistrale questo argomento, che molti laureati del DAMS bolognese – ma non solo – scelgono di seguire per approfondire gli studi sul teatro. Ho agito così sia perché mi pareva di aver approfondito la tematica molto bene nel mio percorso di ricerca sia perché lo ritengo molto utile per gli studenti, i quali a loro volta dalle competenze acquisite possono facilmente trarre degli spunti per seguire altre piste di loro maggiore interesse personale. Come dicevo prima, si tratta di documenti che appartengono al passato; ritengo che un possibile processo di riattualizzazione del libretto in età contemporanea, che conservi le caratteristiche di un’epoca ormai lontana, sia alquanto difficile. Semmai, oggi è possibile rintracciare una sorta di trasformazione radicale del libretto, attuata da molti coreografi contemporanei, a volte coadiuvati da collaboratori in grado di mettere a fuoco e sviluppare contenuti e drammaturgie degli spettacoli. Di fatto, quindi, oggi la figura del librettista in senso stretto è davvero molto rara (è difficile vedere il nome di un librettista in cartellone!), ma esistono altre figure che del librettista rappresentano una forma radicalmente trasformata, abile, ad esempio, nel suggerire elementi necessari alla costruzione della partitura corporea delle creazioni coreografiche, come il testo, o il sottotesto, che può andare a nutrire lo spettacolo; oppure le immagini, che possono essere collezionate in una sorta di storyboard, come ad esempio certi materiali di lavoro di Virgilio Sieni, a mio avviso una specie di “libretto post-moderno”, un libretto degli anni Duemila, denso di frammentarietà e citazionismo, assai frequenti nelle pratiche di numerosi coreografi contemporanei.

Rimanendo nel campo della scrittura della/per la danza, sviluppata però in una modalità differente, rivolgo l’attenzione verso il libro-intervista “Abbondanza/Bertoni”, scritto da lei ed edito da L’Epos nel 2005. Come ha vissuto questa esperienza a diretto contatto con la coppia di artisti?

Questo libro-intervista fa parte di una collana di analoghi volumetti curata da Susanne Franco per la casa editrice L’Epos, fondata sul principio di associare uno studioso e un artista tra i quali esista già una relazione, onde evitare un approccio “freddo” tra le due parti. Per Michele Abbondanza e Antonella Bertoni la scelta è ricaduta su di me perché avevo avuto modo di lavorare coi due coreografi come organizzatrice dal 1997 al 2002 e dunque avevo già una frequentazione del loro universo creativo. L’intervista è stata per me molto  arricchente come studiosa, oltre che emotivamente coinvolgente, giacché, dal momento in cui la nostra relazione professionale si era interrotta, la sensazione di un “divorzio” da loro mi aveva toccata nel profondo. Quest’operazione mi è stata davvero utile! Anche perché era la mia prima esperienza in questa modalità di scrittura e mi permetteva di indagare sia sul passato sia sul presente della compagnia a un livello molto profondo, poiché a diretto contatto con i due artisti. Ritengo che quello dell’intervista sia davvero un metodo molto efficace per questo tipo di ricerca, una via di mezzo tra il testimoniare la voce viva dell’intervistato e il rendere il tutto in una forma scritta tale da essere comprensibile dal lettore, usando cioè le  parole il più possibile adatte a restituire la vivacità del discorso parlato.

Molti suoi saggi, pubblicati su importanti riviste scientifiche, focalizzano l’attenzione sulle forme di danza teatrale nella contemporaneità, con particolare attenzione all’Italia. Come crede che il nostro Paese si ponga nei confronti della scena europea in questo preciso ambito?

I percorsi della danza contemporanea, oggi, sono davvero molteplici e molteplici sono le relazioni e gli scambi tra gli artisti. Se possiamo rintracciare artisti che mantengono una forte connotazione culturalmente  e, in un certo senso, geograficamente manifesta troviamo pure un’ampia omogeneità in esperienze nelle quali la provenienza non è più rintracciabile, o in cui comunque non è più sentita come importante. In ogni caso, con i suoi pro e i suoi contro, lo scambio culturale tra l’Italia e il resto d’Europa mi sembra utile e interessante per l’arricchimento delle produzioni coreografiche nostrane, anche se da un punto di vista meramente economico non a tutti gli artisti italiani vengono offerte delle proposte di lavoro all’estero. Sarebbe bello – a mio avviso – trovare modalità di sostegno e diffusione di queste realtà meno conosciute fuori dall’Italia.

Lei ha condotto incontri pubblici con artisti italiani ed esteri, tra cui gli stessi Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, Simona Bertozzi, Monica Casadei, Bill T. Jones, Cristina Rizzo – solo per citarne alcuni. Chi tra di essi ha lasciato un ricordo marcato in lei a livello professionale?

L’incontro con Bill T. Jones è stato per me il più impegnativo. Non lo conoscevo personalmente, quindi ho sentito la necessità di prepararmi in modo particolarmente approfondito per sentirmi in grado di confrontarmi con lui: come detto prima, ritengo che un rapporto di conoscenza pregresso con l’artista ponga l’intervistatore in un ruolo di conduzione dell’incontro più agevole. D’altronde, non posso negare che l’incontro con Bill T. Jones sia stato assai utile e arricchente, dato il percorso professionale denso e la  profondità con cui lui stesso riesce a parlare dettagliatamente del suo lavoro. Guardando agli artisti italiani, l’incontro con Cristina Rizzo è certamente stato uno dei più proficui, perché diluito in uno spettro temporale più ampio e perché affrontato dalla stessa coreografa con un personale apporto creativo particolarmente articolato e stimolante. Ogni volta che ho incontrato un artista pubblicamente è stato in una diversa circostanza, in un semplice colloquio post-spettacolo o in un progetto di più giorni; dunque, l’approccio è stato ogni volta differente, legato a una modalità di mettere a fuoco (più ampia o più ristretta, a seconda dei casi) la visione propria dello stesso artista .

Lei è membro sia di AIRDanza (Associazione Italiana per la Ricerca sulla Danza) dal 2002 e della statunitense SDHS (Society Dance History Scholars) dal 2015. Mi saprebbe indicare, qualora ve ne sia, la differenza di approccio allo studio della storia della danza tra le due?

Hanno la medesima natura, nel senso che entrambe riuniscono e associano in modo aperto e libero studiosi di danza di vario indirizzo. Lo scopo di queste associazioni è, quindi, quello di mettere in rete persone appartenenti a diversi ambiti, da quello accademico a quello giornalistico, mescolando competenze, permettendo di effettuare scambi e di mettere in atto condivisioni. Si tratta di un’esperienza, a mio avviso, fondamentale per rafforzare il proprio percorso professionale. Ovviamente la diversa collocazione geografica delle due associazioni crea una radicale differenza nel mio personale contributo: gli incontri dell’AIRDanza, essendo in Italia, sono molto più facilmente raggiungibili rispetto a quelli della SDHS, che hanno sede negli Stati Uniti! Se lo spettro d’indagine è parimenti variegato in entrambe le associazioni, la SDHS è strutturata in maniera più articolata rispetto all’AIRDanza: ad esempio, è maggiormente protesa nel supporto dei giovani studiosi, per i quali si ha cura di stanziare piccole borse di studio per aiutarli a crescere nella loro carriera, sostenendoli – ad esempio – a partecipare ai convegni di maggiore rilevanza.

Parliamo dell’Archivio Kazuo Ōno, unica sede europea del giapponese Kazuo Ohno Archives, collocato a Bologna, presso il Dipartimento delle Arti, curato da lei a partire dal 2002. Come ha influito in questi ultimi anni nell’ambiente accademico bolognese la presenza di questo Archivio e, di conseguenza, di questa disciplina di danza giapponese?

Valuto molto positivamente gli esiti della presenza dell’Archivio Kazuo Ōno a Bologna. L’ho sempre considerato un “archivio vivente”, quindi non la sola celebrazione dei documenti di un artista oggi scomparso. C’è sicuramente un pregnante elemento di mantenimento della memoria di Kazuo Ōno, ma c’è anche il desiderio di fare di questo Archivio un luogo dove dare vita a nuovi percorsi, nuove attività rivolte  all’oggi. Alla luce di ciò, dunque, l’Archivio ha portato alla nascita di nuovi percorsi di studio, alla stesura di molte tesi, stilate da studenti interessati a una maggiore conoscenza della danza butō. L’Archivio ha suscitato, inoltre, la curiosità – e quindi una maggiore consapevolezza dell’argomento – da parte di diversi colleghi, oltre che di studiosi esterni all’Università di Bologna (spesso provenienti dall’estero) nonché di artisti da esso sollecitati nelle proprie creazioni. D’altro canto, la fruibilità dei documenti dell’Archivio ha permesso la traduzione in lingua italiana di due testi scritti da Kazuo Ōno e da suo figlio Yoshito, il cui risultato è un volume pubblicato di recente, Nutrimento dell’anima. La danza butō / Aforismi e insegnamenti dei Maestri (Ephemeria, 2015).

Dal 2010 lei è curatrice della sezione danza della stagione annuale del Centro La Soffitta. Ogni anno vengono invitati artisti diversi, ogni anno vengono trattate tematiche diverse. Crede che questa multitematicità abbia contribuito e contribuisca tuttora ad ampliare la visione della danza contemporanea, anche dei non “addetti ai lavori”?

Penso di sì. Le proposte che il Centro La Soffitta accoglie ogni anno si articolano sempre in un trivio di attività: performance dal vivo, incontri di parola e laboratori pratici. Questi ultimi non sono ovviamente  finalizzati alla formazione di danzatori a livello professionale, ma intendono offrire agli studenti la possibilità di incontrare un artista più da vicino, avere a che fare direttamente con le sue modalità di lavoro corporeo, osservarlo da un diverso punto di vista rispetto a quello che può donare la messinscena. Tutte e tre le tipologie di eventi che vanno a comporre la stagione di danza rappresentano un variegato approccio utile ad avvicinare un artista a un pubblico variegato, composto tanto di studenti universitari (nella maggioranza) quanto di persone meno “addette ai lavori”, visto che ogni incontro è aperto all’intera cittadinanza.

 

Marco Argentina

www.giornaledelladanza.com

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