È rincuorante, a volte, percepire come lo scorrere del tempo non lenisca affatto l’essenza di un’opera d’arte, come ad esempio una coreografia. Pensare, dunque, che lo spettacolo Giulietta e Romeo, creato da Fabrizio Monteverde e andato in scena lo scorso 25 febbraio al Teatro Il Celebrazioni di Bologna, conversi in maniera intatta la sua verve e comunichi perfettamente il suo messaggio dal lontano 1987 è senza dubbio la conferma di come un capolavoro riesca a essere davvero eterno.
Nonostante il titolo shakespeariano sia stato “rovesciato”, come a incanalare la massima attenzione sulla protagonista, il primo occhio di bue è tutto per Romeo, un giovane uomo in abiti ben più contemporanei degli sfarzosi quattro o ottocenteschi, tanto elegante nella sua scioltezza quanto penetrante nell’espressività. Le note di Sergej Prokof’ev sembrano scivolare tra le pieghe dei calzoni così come fluire oltre le dita delle mani. La scena è tutta sua, fino all’ultimo minuto dell’intero spettacolo, in cui difficilmente gli altri personaggi riusciranno a pareggiarne il lustro.
Il corpo di ballo del Balletto di Roma, infatti, denota nelle coreografie d’insieme qualche sbavatura, dispersa facilmente nei gesti di frenesia, di delirio che connotano un’ambientazione calda, mediterranea, il cui climax sensoriale ascendente raggiunge il picco nella Danza dei cavalieri: un tripudio di sensualità carnale e latina marcia verso il proscenio animando un pathos fibrillante, instillando nello spettatore il dubbio se sia saggio o meno abbandonarsi alla seduzione. E ne è generatore soprattutto lo sguardo di Donna Montecchi, così come l’impareggiabile veemenza performativa, nient’affatto limitata dalla sedia a rotelle con cui spesso è trasportata da un capo all’altro del palcoscenico, o mandata via al di là delle quinte. È una matrona del Sud, insomma, nel pieno controllo delle vicissitudini della propria famiglia, dalla quale ottiene e contraccambia rispetto. Una figura femminile incrollabile, una Cariatide indefessa e ancora fascinosa.
Il netto contrasto con Giulietta è, dunque, palese, sin dal primo ingresso in scena della giovane. La spregiudicatezza che s’identifica nel volere del coreografo sfortunatamente è resa manifesta in un modo assai flebile, a tratti forzato, sempre poco convincente. Sebbene i virtuosismi della danzatrice, infatti, non lascino alcun dubbio sull’eccellente preparazione tecnica, il profilo estetico incornicia un’immagine di dolcezza effimera più che di fervente rivalsa.
Ciononostante, la coppia di innamorati sembra attenuare le pregnanti divergenze performative, miscelando le qualità e i difetti in un vero e proprio moto turbinoso che incorona la bravura dei due professionisti. È la chiara manifestazione di un Amore travolgente, che tentare di arrestare sarebbe solo un gesto inumano. Romeo e Giulietta, pregni della purezza del loro sentimento, si lasciano trottolare dalle emozioni secondo il disegno creativo di Monteverde, che ne alimenta – in tal modo – il coraggio di affrontare le sfide, di vivere la loro storia d’amore nonostante le incombenze familiari.
E persino nel tragico epilogo, dove il cimitero assume le forme di una galleria d’arte necrofila, il sentimento del cuore travalica la ragione per sfociare nell’apoteosi del romanticismo e della Verità: prima di esalare l’ultimo respiro, Romeo bacia ancora la sua Giulietta, che si abbandona poi alla Morte pugnalandosi sul corpo del suo amato.
Amor vincit omnia. Sempre e comunque.
Marco Argentina
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