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Diego Tortelli – “Bodies on Glass”: composizione, memoria e fragilità del gesto

Coreografo residente presso il Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto, Diego Tortelli è una delle voci più lucide e riconoscibili della nuova generazione coreografica italiana. La sua traiettoria attraversa scuole prestigiose, teatri internazionali e collaborazioni interdisciplinari che hanno progressivamente definito una poetica del corpo fondata sulla porosità tra gesto e struttura, presenza e dissolvenza. In Bodies on Glass, creazione coprodotta da Triennale Milano e Teatro Grande di Brescia, Tortelli intreccia la propria ricerca coreografica con l’universo musicale di Philip Glass, riletto dal vivo dal pianista Andrea Rebaudengo. Il lavoro si sviluppa come una partitura aperta, dove la precisione della composizione convive con l’instabilità dell’improvvisazione, e dove la danza si fa materia effimera, pronta a lasciare una traccia sulla superficie fragile della memoria, come un’impronta su vetro. In questa intervista, Tortelli riflette sul proprio percorso, sulla relazione con i danzatori, sul significato della creazione coreografica come atto di fiducia e sulla necessità di costruire opere che mettano in discussione i confini stessi della scena.

La Sua formazione tra l’Accademia Nazionale di Danza e il Teatro alla Scala Le ha permesso di abitare linguaggi e codici diversi. In che modo questa stratificazione formativa ha influenzato la Sua ricerca autoriale e la Sua scrittura coreografica?

La mia formazione è un corpo fatto di più corpi, un’architettura danzante dove la struttura del classico e la libertà del contemporaneo si incontrano come due correnti. L’Accademia mi ha dato la libertà di esplorare, la Scala la disciplina per sostenere l’esplorazione con rigore. Questa stratificazione ha fatto sì che nella mia scrittura coreografica convivono ordine e deriva, regola e deviazione, come in un linguaggio che si costruisce ogni volta nel fragile equilibrio tra il controllo e l’abbandono. È un modo di abitare il movimento come un testo aperto, che respira e si riscrive a ogni passo.

Ha attraversato contesti performativi molto eterogenei, dal Balletto dell’Esperia alla Veronal, passando per esperienze internazionali. Qual è il fil rouge che ha guidato la Sua transizione da interprete a coreografo e come queste esperienze hanno nutrito la tua visione scenica?

Il fil rouge è stato il desiderio costante di ascoltare il mondo con il corpo, di rispondere alla sua complessità attraverso la danza. Ogni esperienza – dall’Italia alla Spagna, dagli Stati Uniti alla Germania – ha lasciato una traccia, come un’impronta sul mio corpo. Essere interprete mi ha insegnato ad ascoltare; diventare coreografo mi ha dato voce. Questi due poli si sono nutriti a vicenda. La scena, per me, è diventata un luogo di stratificazione della memoria, uno specchio in cui le visioni si sovrappongono come i sogni, sospesi tra ciò che è stato vissuto e ciò che ancora non esiste.

Nel Suo lavoro emerge una costante tensione tra struttura e frammentazione, come in “Bodies on Glass”, che sarà presentato il 26 giugno 2025 al Festival Nutida, opera in cui l’organizzazione coreografica coesiste con zone di improvvisazione. Come costruisce questa dialettica all’interno del processo creativo?

La dialettica tra struttura e frammentazione è il respiro stesso del mio processo creativo. In Bodies on Glass, ogni movimento nasce con una forma ma si concede la possibilità di sfaldarsi, di slittare, di diventare qualcos’altro. Come una frase che si spezza a metà ma continua a parlare. Il gesto è costruito, ma resta poroso, attraversato dall’imprevisto. Amo pensare alla coreografia come a un paesaggio che si muove sotto i piedi: qualcosa che si costruisce nel momento stesso in cui si sta già disfacendo, lasciando scie di senso senza mai fissarsi in un’unica verità, senza mai dover narrare un’unica storia.

Il progetto nasce da un incontro con Andrea Rebaudengo e dalla musica di Philip Glass, che Lei definisce ipnotica e aritmetica. Come ha tradotto coreograficamente questa complessità strutturale senza rinunciare alla componente effimera del gesto?

La musica di Philip Glass è come un orologio: ripetitiva solo in apparenza, ma in realtà piena di microvariazioni che creano un tempo altro, sospeso. Ho cercato di tradurre questa qualità ipnotica costruendo partiture coreografiche che si avvolgono su se stesse, come spirali vive. Ma il cuore del mio lavoro è sempre il corpo che scivola, che consciamente si perde, che si affida all’attimo. L’effimero del gesto non è sacrificato: è anzi amplificato da quella struttura che lo contiene e, allo stesso tempo, lo lascia libero di sfuggire. Come una goccia d’acqua su un vetro, che rifrange la luce ma non trattiene la forma.

Ha parlato di partiture coreografiche “fragili e scivolose”. Può approfondire cosa intende esattamente con questa definizione, anche in relazione al concetto di instabilità come valore estetico e poetico nel tuo lavoro?

Le mie partiture sono fragili come pelle sotto la pioggia, scivolose come parole sussurrate a metà. Non voglio costruire forme granitiche, ma lasciar emergere strutture vive, che si possano spezzare, contaminare, smarrire. L’instabilità per me è poesia: è l’ammissione che nulla dura, che il gesto nasce già in dissolvenza. In questa precarietà ritrovo la bellezza della danza, che è presenza e scomparsa, memoria e perdita. Un’estetica che non vuole fermare l’immagine, ma lasciarla fluire, scorrere come una traccia d’acqua sulla sabbia. Proprio per questo spesso sono attratto dalla parola, nonostante poi raramente utilizzi il testo parlato nei miei lavori, la parola per me è risorsa più che della fotografia o del cinema o qualcosa che di per sé contiene un’immagine statica o un obiettivo di forzare una estetica. La Parola, scivola, ha doppi sensi e sulla base di come una venga combinata all’altra cambia di significato.

La relazione con i danzatori è fondamentale nella tua pratica. In Bodies on Glass lavora con interpreti che La affiancano da anni. Come si declina la fiducia reciproca nella costruzione di un linguaggio condiviso ma sempre in mutazione?

Con i miei danzatori, la fiducia è un corpo silenzioso che danza prima ancora del movimento. Lavoriamo insieme da anni, e questo ci permette di comunicare anche nel vuoto, nel non detto. Il linguaggio che costruiamo è un organismo vivente: ha una grammatica, ma non un dizionario fisso. È un alfabeto che si riscrive con ogni nuova creazione. Questa fiducia reciproca è lo spazio sacro in cui possiamo perderci, rischiare, sbagliare. Ed è proprio in questi margini imprevisti che nasce la verità del gesto: non come replica, ma come scoperta.

Il titolo del lavoro suggerisce una doppia lettura: “corpi che danzano su Glass” e “corpi sul vetro”. In che modo questa ambivalenza semantica ha influenzato le scelte compositive e la relazione tra suono, spazio e movimento?

Il titolo Bodies on Glass è una lente bifocale: da un lato la musica di Glass, dall’altro la trasparenza e fragilità del vetro. I corpi si muovono come se danzassero su una superficie che potrebbe infrangersi a ogni passo. Questo pensiero ha influenzato la composizione: il movimento è preciso ma anche esposto, vulnerabile. La relazione tra suono, spazio e corpo si fa tensione continua, come un equilibrio instabile su una lastra trasparente. Il pubblico guarda, ma è come se vedesse attraverso: come se ogni gesto lasciasse un’impronta effimera sulla superficie di qualcosa che non può trattenere nulla, ma che tutti riconoscono.

Il lavoro sembra proporre allo spettatore un ritorno al “prima” del gesto, al momento in cui la composizione si manifesta come processo più che come esito. Quanto conta per Lei la trasparenza del dispositivo coreografico nella relazione con il pubblico?

Per me conta moltissimo. Voglio che il pubblico senta di assistere non a una forma finita, ma al mistero della sua nascita. Come se si trovasse davanti a un fiore che sboccia lentamente, o a una parola che prende senso mentre viene pronunciata. La trasparenza del dispositivo coreografico è un invito a condividere il processo, a entrare nel laboratorio della creazione. È un atto di fiducia e di apertura: mostrare il meccanismo non per spiegare, ma per generare meraviglia. Come guardare un cielo che cambia, sapendo che ogni nuvola è unica.

Portare “Bodies on Glass” in versione outdoor implica un confronto diretto con spazi non convenzionali. Come cambia il lavoro – e la sua percezione – quando la danza si inserisce in un contesto urbano o naturale, fuori dal dispositivo teatrale?

Uscire dal teatro è come far uscire il respiro all’aria aperta: il lavoro si espande, respira in modo diverso. I confini si sfumano, e la danza si apre alla contaminazione con l’ambiente. I corpi non sono più al centro di uno spazio protetto, ma immersi in una realtà viva, che reagisce, che risponde. Il pubblico guarda da angolazioni nuove, a volte si trova molto in prossimità della scena. Il suono, la luce, il vento: tutto diventa parte del gesto. E allora Bodies on Glass si trasforma, diventa qualcosa che non si può più controllare del tutto, qualcosa che non si può incasellare in una scatola nera. Ma proprio per questo, forse, diventa ancora più vero.

Oggi Lei è coreografo residente per Aterballetto e ha ricevuto riconoscimenti da importanti istituzioni come la Biennale di Venezia. Quali responsabilità – artistiche ed etiche – sente nel portare avanti una ricerca che parli al presente senza cristallizzarsi in un’estetica riconoscibile?

La responsabilità più grande è quella di restare in ascolto. Non tanto del consenso, ma del tempo che abitiamo e di se stessi. La danza, per me, non può essere uno stile da difendere, ma un linguaggio da reinventare. Essere riconosciuto è un dono, ma anche un rischio: quello di diventare prevedibili. Per questo cerco sempre di ricominciare da zero, come se ogni lavoro fosse il primo, ma ovviamente l’influenza del lavoro precedente è sempre un ombra in agguato e a volte si fa più che presente. Artisticamente è una sfida; eticamente, è una forma di onestà verso il pubblico e verso i danzatori, ma anche verso me stesso per riuscire a rimanere il più legato possibile a quell’entusiasmo e coraggio che si nascondeva dietro ai primi lavori, forse meno riusciti, ma vissuti in piena onestà. Voglio che ogni creazione sia un atto di verità, fragile e pulsante, come una domanda che non smette di cercare. Che sia quindi, umana e con tutte le imperfezioni che ne comporta.

Lorena Coppola

Photo Credits: GNO Ballet, Marie-Gryczka, Newreporter

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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