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Susanna Beltrami, ambasciatrice di Cultura e d’Arte della Danza

 

 Susanna Beltrami

Dopo una formazione classica in Italia, Susanna Beltrami decide di seguire le correnti della danza contemporanea internazionale fin dagli anni ottanta. Si accosta agli insegnamenti di Carolyn Carlson e dei ballerini Larrio Ekson e Jorma Uotinen. Trascorre periodi di formazione a New York nelle principali scuole della modern dance come quelle di Alvin Nikolais, Martha Graham e presso la Merce Cunningham Dance Foundation. Dopo l’esperienza americana e dopo aver fondato a Verona il Centro Ricerca Danza approda a Milano dove inizia la sua carriera di formatrice e di coreografa. Qui riceve incarichi didattici per i corsi di formazione del Teatro alla Scala e per l’Atelier di teatro-danza della Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi. In seguito è ideatrice di celebri lavori come Fuga in valzer, Dressoir, Sopra un picco in Darien e Hiatu Meju. Famose le sue creazioni di alcuni spettacoli ispirati al teatro e alla danza spagnoli come El amor brujo, Diablo, Storia Flamenca, Blu Diablo. Partecipa in qualità di coreografa di danza moderna al talent show di Rai 2 Italian Academy. Per l’étoile Luciana Savignano, la Beltrami ha ideato vari spettacoli tra cui Il suo nome…. Carmen e Tango di luna. Successivamente fonda l’Accademia di danza DanceHaus a Milano. Nel 2013 esce il film del regista Ettore Pasculli “Italy Amore Mio” in cui la Beltrami interpreta sé stessa insieme a 150 dei suoi allievi e collaboratori.

 

 

 

Cara Susanna, da dove nasce il tuo amore per danza e chi ti ha indirizzato verso questa nobile arte?

Sono figlia d’arte, mio padre amava il teatro, recitava magnificamente e dirigeva una compagnia teatrale a Verona, la mia città natale. Lui avrebbe preferito che io facessi l’attrice e in un certo momento della mia carriera così è stato, ma la mia passione era il gesto, da piccola ero di poche parole, ma molto attenta alla fisicità, mi serviva per esprimermi meglio. Pochissimi giorni prima di morire, a 87 anni, mio padre ha tolto il velo della riserva su di me, dicendomi che avevo fatto bene a sposare la danza, perché i gesti non sono così bugiardi e ingannatori, come le parole. Quello che credo di essere diventata negli anni, dentro questa dualità, una intenditrice di gestualità.

Quali studi hai seguito per coltivare la passione della danza? Tu hai iniziato con una formazione classica?

Ho iniziato certamente con lo studio della danza accademica, Tecnica Vaganova, ma ero sempre coinvolta dai gusti avanguardisti di mio padre, che mi dirottava su seminari teatrali molto complessi, tipo Odin Theatre, Living Theatre e quindi il sogno del cigno si allontanava gradualmente da me, lasciando spazio ad un mondo che avvicinava l’interprete alla vita, alla quotidianità, agli umani sentimenti. Perciò giovanissima mi avvicinai alla danza libera, introdotta in Italia dai fratelli Sakarovv e portata al successo da una grande artista quale Franca Della Libera. Fu lei che aprì i miei orizzonti verso “un’altra danza”.

Poi hai deciso di seguire le correnti e l’ideologie della danza contemporanea?

Diciamo che è stato un certo mondo coreografico che si impadronì totalmente di me, parlo di Carolyn Carlson e molti altri fino a Merce Cunningham, docente e artista a cui ogni giorno dedico un pensiero. È stato un maestro di vita, ben oltre la danza.

Come ti sei avvicinata, in seguito, alla professione di coreografo?

Dopo i miei anni trascorsi negli Stati Uniti, rientrando in Italia e precisamente scegliendo Milano come mia residenza artistica, l’unica possibilità di esistere nella danza contemporanea era praticarla, era cercare un linguaggio coreografico che potesse esprimere tutta la voglia di cambiamento dell’estetica e del pensiero degli anni Ottanta. Esisteva poco in Italia, qualcosa a Roma, ma a Milano nulla di davvero significativo. In quegli anni, quindi, io ed altri colleghi iniziammo il nostro cammino, molto difficile… dovevamo vedercela con i grandi balletti di repertorio o con i grandi show musicali televisivi e non, e noi eravamo veramente delle piccole cellule alla ricerca di qualcuno che credesse in noi, nella nostra poetica.

 

Credi che l’attuale metodo di insegnamento della danza, in Italia, sia efficace?

Credo che nell’enorme espansione della danza come disciplina fisica e artistica, il panorama sia gigantesco, di tutto e di più, credo che anche l’Italia adesso possa vantare situazioni di eccellenza. Ci sono ottimi insegnanti e splendidi ballerini che si sono formati qui e che arricchiscono le Compagnie internazionali. Io non sono esterofila, quando vivevo all’estero toccavo con mano il valore degli artisti italiani, ma è pur vero che molto spesso il nostro paese è sedotto da una sorta di globalizzazione anche nel campo artistico. Sarebbe più interessante formulare una rete costante di scambi, favorire la migrazione senza frontiere e non la fuga.

 

Quali sono stati i momenti più importanti ed emozionanti della tua carriera? Quelli che hanno determinato una svolta nella tua vita professionale e anche nella tua crescita interiore?

Non sono un artista che ricorda fatti così eclatanti da parlarne per una vita intera, ho la sensazione di aver lavorato ogni giorno della mia vita, con le mie azioni e le mie idee. Anche quando un artista è in atteggiamento meditativo, sta lavorando, magari per una creazione, forse per rendere possibile una nuova avventura, ma è sempre in azione. Così io mi sono sentita per tutta la vita… in azione. Ho passato moltissimo tempo a condividere, dentro fatti pubblici e privati, non ho cercato una vita di solitudine, egocentrica ed esclusiva, al contrario ho sempre voluto coinvolgere ed essere coinvolta. Per questo ho creato la DanceHaus, una opportunità di dare spazio a idee e modalità che appartengono al nostro tempo e ai suoi protagonisti.

 

Chi ti ha aiutato o ha creduto di più nella tua carriera?

 

Mio padre e mia madre erano persone molto colte, con una straordinaria vena artistica. Quindi il terreno era fertile, non ho mai dovuto dare loro grandi spiegazioni sulle mie scelte, ho fatto quello che più ho sentito. Mi mancano molto queste due meravigliose creature che mi hanno saputo capire, leggere dentro. Questo è quello di cui ho bisogno più di ogni altra cosa, di complicità e di affetto.

 

Qual è il balletto del cuore, quello che hai più amato? e il coreografo?

 

Non ho un balletto del cuore, non ho degli idoli, mai avuti, neanche quando ero più giovane, amo tutta l’arte quando è vera, quando è nutrita dalla necessità, dal bisogno di dire. Ho visto parecchie produzioni artistiche, molte mi sono piaciute e tutte a modo loro sono indimenticabili, le porto tutte con me.

A quale ricordo sei maggiormente legata nella tua straordinaria carriera di successo?

 

Non possiedo un ricordo particolare, ma un mondo di ricordi, legati a fatti, persone e luoghi che hanno contribuito alla realizzazione del mio progetto esistenziale. Tutti i ricordi sembrano riportarmi a quello che oggi sono, una donna, una madre, un artista e queste tre parti sono molto ben amalgamate in me, l’una arricchisce e si prende cura dell’altra. I ricordi più forti sono legati alle cose che nascono e a quelle che muoiono, in ambedue i casi ho provato emozioni indimenticabili. Tra questi due momenti scorre poi la vita con le sue dinamiche, gioie e fatiche quotidiane.

Qual è stato il tuo primo lavoro coreografico e quale ricordo conservi?

 

Il mio primo lavoro coreografico si intitolava Del Disamorarsi, un lavoro a due, io e un danzatore. Una piccola creazione molto sentita sull’amore e sugli addii. Era il 1979, avevo vent’anni ed ero ancora nella mia città, Verona. Danzavo a seno nudo, e questo al tempo non fu proprio facile da far digerire, anche se il nudo in un danzatore è sempre meravigliosamente raffinato. Ma al tempo un certo tipo di danza, era considerata abbastanza peccaminosa… quindi se ne parlò molto e poi Verona non era New York!! Avevo iniziato una collaborazione con un compositore di musica elettronica, che lavorava in un centro di calcolo della facoltà di Ingegneria di Padova. Insomma quando sento adesso certa musica elettronica, mi sembra che al tempo, insieme, eravamo davvero avanti, forse pionieri.

Come ti accosti alla preparazione di una coreografia? Da cosa parti, come si articola il percorso per arrivare al lavoro confezionato per il palcoscenico?

 

Ogni mio spettacolo è stato ed è un’esperienza totalmente autonoma dal precedente, desidero che ogni creazione abbia il proprio punto di partenza e di arrivo. In generale inizio dalla materia letteraria, mi piace tradurre il pensiero che scorre nella scrittura, in immagini sceniche, in azioni di movimento, in coreografia. Mi piace comporre utilizzando la connessione con altri mondi, tra questi la musica, l’architettura, la moda, il cinema, il teatro. Credo sempre più in un’opera coreografica che si avvicini al teatro totale.

Quali sono oggi i problemi riscontrati per una Compagnia di danza, tu che ne dirigi una molto prestigiosa nel panorama nazionale?

 

Credo che ci siano significative e prestigiose Compagnie in Italia, ma che in nessun modo possano avere il dono della continuità. Non ci sono abbastanza risorse economiche e quindi dobbiamo lavorare in condizioni sempre di stress, ma questo bicchiere mezzo vuoto, fa capire anche l’amore che alimenta la nostra resistenza alla conservazione. Quando parlo di vitale necessità di un’opera artistica, intendo questo, se ci è necessario allora mettiamoci in cammino e non fermiamoci…

Da dove trai l’ispirazione per una nuova coreografia?

 

Ci sono degli innamoramenti, temi che mi stanno a cuore, ma anche momenti della mia vita, che mi avvicinano a determinati aspetti. La vita, posso dire, è il mio più grande tema ispiratore, con i suoi interrogativi e l’umanità con le sue debolezze e virtù… forse mi interessano maggiormente le debolezze.

Quali messaggi desideri lasciare al pubblico al termine di uno spettacolo mediante le tue creazioni coreografiche?

 

Io penso che occuparsi di spettacolo dal vivo sia un privilegio, entrare in contatto diretto con lo spettatore, senza mediazioni di sorta, stabilire un approccio empatico, emozionale, raccogliere il suo applauso e rispondere ai quesiti, è molto importante. Alla base c’è per me il tentativo di contribuire alla salvezza della Cultura e della sua diffusione, pensare all’arte come fenomeno culturale è la cosa che prediligo, credere nella sua forza affascinatrice, continuare a pensare che la cultura e la bellezza migliorino le sorti dell’uomo. In questi giorni, dopo gli attentati di Parigi, persisto a pensare, che certa violenza derivi anche da molta aridità intellettuale. Quindi credo nell’opera d’arte non solo come prova della personale abilità compositiva, ma come strumento per il benessere dell’anima.

Hai sempre creduto e investito sui giovani, ancora oggi dai spazio a nuove realtà di coreografi in erba. Quanto è importante supportare la ricerca di nuovi linguaggi e nuove sperimentazioni?

Quando ero giovane, non è stato facile trovare luoghi e modi per realizzare i miei progetti, ricordo prove in cantine umide, pavimenti di mattonelle, mille telefonate e allora “lettere”, per cercare un posto dove lavorare. I luoghi per la creatività devono essere luoghi speciali, accoglienti, dove l’artista possa respirare un’atmosfera stimolante. Anche in mezzo al deserto si può fare o in cima ad una montagna, ma in una metropoli è fondamentale avere un luogo e non solo fisico ma anche di ispirazione. Ecco perché ho pensato che il punto di arrivo della DanceHaus possa essere proprio questo, dare casa ai progetti, sostenerli e farli diventare importanti. Inoltre lavorare in una città come Milano offre spunti relazionali straordinari ed ecco che amo portare tutti questi nuovi intrecci, nella nostra casa, viva ed accogliente.

Oltre la danza, quale altre passioni coltivi nel tuo privato?

 

Amo molto viaggiare, scoprire dei posti dove poter sognare di rifugiarmi tra qualche anno o dove semplicemente perdermi con sogni di libertà. Non ho rimpianti, ma spesso nostalgia per tutti quei luoghi che ci riempivano gli occhi e l’anima. Mi piace ancora andare a scoprirli e non viverli da turista ma da abitante.

Nella tua carriera hai avuto tanti incontri illustri del mondo della danza. Sicuramente l’incontro con la meravigliosa Luciana Savignano ha dato frutto a una collaborazione di grande professionalità creativa. Mi vuoi raccontare il vostro rapporto di lavoro, come vi siete conosciute e com’è Luciana a livello artistico al di là dell’étoile internazionale che tutti conosciamo?

 

Quest’anno festeggiamo i 20 anni della nostra amicizia e collaborazione. Non so dire se prima è nata l’amicizia o la collaborazione, a me piace pensare che sono nate insieme. Le proposi un creazione italo-spagnola intitolata Blu Diablo, unica donna con un manipolo di danzatori flamenchi straordinari. Si innamorò del mio racconto, sedute nel bellissimo salotto della sua casa milanese e iniziammo. Da quel momento fino ad oggi ho sempre fantasticato su qualcosa di speciale per lei, costruendo dei ruoli femminili forti e sensuali, raccontando con lei storie di amore, morte, libertà, puntando ad una certa trasformazione del suo essere danzatrice e personaggio pubblico. Credo che insieme abbiamo realizzato un lavoro sincero, molto ricercato e sono felice di essere tra coloro che hanno avuto il privilegio di tanta bellezza.

Insieme avete fondato anche la “Compagnia Pier Lombardo Danza”?

 

Sì in occasione di un’altra importante creazione La Lupa. Negli anni a seguire molte creazioni di successo, alcune come Tango di Luna, replicato per ben 150 rappresentazioni in tutta Italia.

 

Quali altri personaggi di rilievo hai conosciuto sul tuo cammino ai quali è indirizzata la tua totale ammirazione?

Sono stata fortunata, ho attraversato un tempo ricco di incontri artistici e non solo tersicorei.

C’è in particolare un ballerino o una ballerina o una compagnia a livello mondiale con cui ti piacerebbe lavorare o creare?

 

Vorrei che Merce Cunningham fosse ancora qui con noi, ascoltare la sua voce, cibarmi delle sue pause, più che un coreografo, un filosofo, un pensatore.

A tuo avviso per un coreografo è fondamentale essere stato anche un danzatore o docente?

 

Non posso immaginare come si possa comporre senza essere passati in prima persona dalla danza, da quell’esperienza totalizzante del corpo che senza orpelli, si muove nello spazio, creando architetture, storie, personaggi o semplicemente vibrazioni. Il mestiere della danza è puro perché passa mediante la fatica, perché scende in campo, tra sudore e ostacoli. Non voglio fare retorica ma è così. La cosa che ultimamente sento però è che spesso quando il corpo si rifiuta, è stanco e con l’età diminuisce la sua attività performativa apparente, emerge la vera sostanza della danza, quella poesia segreta, quel modo di essere sulla scena così veri, così se stessi.

Per te quale significato ha, in quanto coreografa, poter lavorare e contare su un gruppo di danzatori ben consolidato e stabile?

 

Sono interessata a coltivare danzatori che possano seguire i miei intenti artistici. Ho un modo mio personale di ricercare con loro la strada più giusta per la creazione. Non esiste per me una modalità standard. Non sono alla ricerca solo della tecnica, ma cerco anche la corporeità, una fisicità viva, prorompente e le idee, molte idee elaborate mediante il gesto espressivo. Questo livello artistico costa tanto lavoro, ma diciamo che è la parte della creazione che mi interessa di più, lavorare con le persone e centrare l’obiettivo.

Quali sono i tuoi maestri che ricordi con maggiore gratitudine?

 

Mi reputo fortunata, davvero, ho avuto solo meravigliosi docenti. Ai miei tempi i maestri erano come i guru, non si passava da un maestro all’altro con tanta facilità, si seguivano per anni, anche in silenzio… mi mancano tutti, ma sono nel mio cuore.

I ricordi più belli legati alle tue prime lezioni di danza?

Mi iscrissi da sola alla mia prima scuola di danza, avevo 9 anni e la mia prima maestra collaborava nella compagnia teatrale di mio padre, dunque mi conosceva da piccolissima, ma rimase esterrefatta quando dalla mia borsetta estrassi la paghetta che mio nonno mi aveva regalato per il mio compleanno, dicendo appunto che volevo iscrivermi. Forse in quel tempo è stata una delle poche frasi che ho pronunciato fuori dalla famiglia, ero molto timida. Ma ho detto una cosa per necessità, io volevo danzare, punto, e nessuno sino a quel punto mi aveva preso sul serio. Poi ricordo la fatica e qualche invidia di compagne che mi facevano soffrire.

 

Che tipo di allieva sei stata, a tuo avviso?

Credo di essere stata un’allieva fedele, ho sempre amato la danza, anche nei momenti più difficili, anche oggi che vedo molte cose che non vanno, la amo e vivo con lei. Ho un rapporto dialettico con il mio lavoro, non inserisco il pilota automatico, ma cerco ancora di darmi e dare spiegazioni.

 

La tua famiglia ti ha sempre supportata in tenera età a coltivare e proseguire la carriera nel mondo della danza?

Eravamo tutti un po’ artisti in casa, quindi nessun problema. Mio padre mi ha difeso spesso dalla severità del mio preside di Liceo Classico che riteneva la danza fosse per me una perdita di tempo. “Meglio sciare che fa bene ai polmoni,” diceva e poi si scia di sabato e domenica senza togliere tempo allo studio. Anche adesso spesso i presidi ragionano così, pare che un ragazzo che voglia danzare sia per forza un allievo di serie B. Rammento ancora le discussioni animate di mio padre con il preside, pirandelliane oserei dire. Conservo le lunghe lettere che i miei genitori mi scrivevano quando vivevo a New York, sempre incoraggianti, colme di amore e fiducia.

Se non avessi fatto danza quale altra aspirazione avresti nutrito da giovane?

 

Avrei fatto l’attrice, sicuramente, e devo dire che sempre più il teatro di regia mi interessa. Chissà magari sarà un nuovo traguardo da raggiungere.

Che rapporto hai con il cibo? Tema tanto discusso nel mondo coreutico…

 

Ho sempre cercato di essere equilibrata, non è stato mai il rapporto con la danza ad allontanarmi da un bel piatto succulento, ma semmai i dispiaceri della vita, quando ti si chiude lo stomaco. Sono molto basic e amo particolarmente la cucina etnica. Ai miei allievi dico sempre che noi siamo quello che mangiamo e come cibo mi riferisco a tutto, cibo vero e cibo dell’anima.

Tu sei un’affermata, seguita e amata rappresentante della danza italiana. Ma per te cosa rappresenta realmente quest’Arte?

Alla base la possibilità di esprimermi, di affrontare i momenti salienti della mia vita attraverso la pienezza del gesto e sceglierne tra mille, uno che veramente mi corrisponda. È per me anche l’arte della condivisione e della conoscenza di mondi paralleli estremamente affini tra loro. La possibilità di incontrare persone molto interessanti ed escludere nello stesso tempo ciò e chi non mi interessa

Esiste un aspetto della tua carriera che ti piacerebbe leggere e che non è stato ancora scritto?

Dopo tanto tempo mi sento sinceramente di dire che ciò che viene scritto e detto di un artista è solo una piccola parte o l’altra faccia di quello che davvero è. Il fatto che qualcuno scriva di te e del tuo lavoro già per me è un fatto estremamente limitato e limitante, viene resa pubblica quella che è la visione decisamente personale di chi scrive e sarebbe bello poter pubblicamente rispondere che non si è d’accordo o che è proprio così, come si fa naturalmente con il dialogo. Ma la dialettica costruttiva non sembra essere di questo mondo, quello che pensa certa stampa di settore è spesso smentita ad esempio dal pensiero del pubblico. Allora preferirei un giorno essere io a scrivere qualcosa di me.

Tra tutti gli spettacoli che hai visto come spettatrice, quale rammenti con più emozione e bellezza?

Tantissimi, non voglio elencare preferenze, e poi non solo spettacoli… ma letture, film, mostre e soprattutto alcune persone “spettacolari”.

C’è in particolare un coreografo, del passato, che ha influito sul tuo stile?

Non solo ambiti di danza hanno influito sul mio percorso artistico, ma un ambito culturale più aperto.

Il più grande ostacolo che hai incontrato nel corso della tua carriera?

Nessun ostacolo se non l’ignoranza e la chiusura mentale, conditi di molto egoismo, cosucce vero?

Un tuo giudizio spassionato sui talent televisivi di danza ma in genere anche di quelli che spingono i giovani a far emergere le loro doti. Sono un buon viatico per una carriera “decisamente” professionale e all’altezza delle aspettative? Tu che l’hai vissuto in prima persona essendo stata la coreografa di modern nel talent show, che io ho molto amato, “Italian Academy” su Rai 2?

Se stai dentro un programma hai veramente la possibilità di capire cosa succede, dall’esterno è tutta un’altra cosa te lo assicuro. Posso dire che a volte il destino di alcuni ragazzi dipende più dal “glamour” del giudice che dalla vera bravura e dal talento e non sempre il vero talento viene premiato. Non sono d’accordo nel dire che comunque tutto questo è utile a diffondere la danza, è utile all’apertura di “mille” palestre e scuole improbabili, sì, è utile nel divulgare l’arte della competizione dell’esibizionismo, anche. Non è facile lavorare per la qualità e sostenerla fino in fondo.

Tra tutti i danzatori e danzatrici del panorama attuale mondiale, a chi vuoi riconoscere l’eccellenza?

A tutti coloro che fanno della danza la loro vita, come artisti e come comunicatori di cultura e bellezza. La danza quando è bella è tutta bella, nessuno stile escluso, non mi piace pensare a quest’arte come un “genere” qualunque esso sia.

Spesso sei docente in prestigiosi Stage, abbiamo partecipato insieme anche a Giurie di Concorsi, stiamo collaborando al Premio Silvio Oddi in suo ricordo per l’eccellenza della danza maschile. A tuo avviso quanto sono importanti manifestazioni di questo genere per l’accrescimento tecnico, espressivo ed emotivo dei giovani danzatori?

Tutto è motivo di crescita, nessuno è “proprietà” di nessuno, gli allievi non sono proprietà delle scuole, ogni iniziativa che spinge al confronto è formativa. Questa esperienza ci ha fatto ricordare invece quanti meccanismi assurdi bloccano spesso la strada a ragazzi che meriterebbero di viaggiare con le proprie gambe verso mete lontane, non solo geograficamente parlando. Siamo felici di aver portato avanti questo progetto, ma che fatica!! Ma Silvio merita questo e altro.

A proposito dell’indimenticato Silvio Oddi, un tuo ricordo personale.

Quando ci incontravamo non parlavamo mai di lavoro, ma si parlava subito della nostra vita, come se il lavoro fosse importante ma non la sola cosa, stare con lui era molto confortevole, una persona amabile di bellezza profonda e un velo di ironia, a volte commovente.

Ti piace insegnare ai giovani danzatori, ti emoziona sempre fare la docente e trasmettere la tua cultura della danza?

Sempre… con la consapevolezza che tutto cambia velocemente, che le nuove generazioni hanno bisogno molto di sostegno interiore, di educazione al metodo e di… respiro! Devono imparare a respirare, per non fermarsi alla superficie e scendere in profondità.

Che ruola gioca la musica nelle tue creazioni?

Parto sempre dal silenzio, cerco di scoprire quale musica prenda vita dalle mie intenzioni, quale ritmo e melodia possiedano il progetto creativo e quale sonorità siano i miei danzatori. Poi arriva la musica…

Qual è il tuo giudizio sulla nuova “Vetrina” dei giovani coreografi italiani di contemporaneo?

Finalmente ci sono circuiti, occasioni ottime per i giovani che vogliono ricercare. E questo fa sì che ogni tanto esca qualche artista davvero interessante. Anche l’ultima Nid Platform della danza italiana, ha confermato questo.

Nei tuoi lavori ti lasci ispirare anche dai colori?

Non particolarmente.

I costumi e le luci cosa rappresentano in un balletto?

Credo siano un supporto importante, ma non fondamentale. Si può danzare alla luce del giorno o al lume di una candela, nudi o vestiti. L’ importante che anche le luci, le scene e i costumi abbiano un contenuto e non siano mai un “decoro”.

Dirigi la celebre DanceHaus, un’affascinante casa milanese della danza, un distretto dell’arte contemporanea il quale conosco molto bene e apprezzo con vivo interesse, vuoi descriverla per i nostri lettori e fare una breve storia della sua evoluzione?

Ho fondato e dirigo la DanceHaus, un luogo che è partito come una scommessa, dopo essere uscita da un’esperienza di direzione molto deludente e dopo aver appreso che era il tempo giusto per rimettermi in gioco totalmente con il mio unico “pensiero” senza dover cedere a mille compromessi. La mia forza, dieci anni fa, è stata, devo ammettere, ciclopica. Ancora molti, oggi, si chiedono come sia stato possibile realizzare un progetto così complesso senza finanziamenti pubblici e particolari aiuti. Alcuni hanno pensato che avessi vinto all’Enalotto o forse in una eredità improvvisa, visto che di mariti ricchi e potenti neanche l’ombra. Invece si tratta di lavoro e della mia storia, questo progetto ha premiato il mio impegno di anni nella formazione di danzatori, tutti bravissimi, coreografi talentuosi che hanno disseminato il pianeta e hanno portato in giro sicuramente qualche cellula del mio pensiero. La DanceHaus è lavoro, tanto artigianato, si respira un’aria di continua ricerca verso nuovi progetti, si crea, si rappresenta, ci si incontra, si accede ad una rete di scambi, si vive tutti i giorni una vita piena. Non avrei immaginato potesse diventare una cosa così… mi riempie di gioia e proporzionalmente di molti impegni.

La “Compagnia di Danza Susanna Beltrami” è molto apprezzata, il festival MilanOltre le ha dedicato un Focus e anche fuori dai confini nazionali riscontra sempre successo e buone critiche. Secondo te, Susanna, quali sono i punti di forza?

Il mio intento è quello di avvicinarmi allo spettacolo con un atteggiamento creativo aperto, non mi piace lo spettacolo d’élite, mi piace unire la ricerca, la drammaturgia all’emozione. Sviluppo con i miei danzatori la tecnica del linguaggio, come se la danza diventasse davvero una lingua parlata, mediante i pensieri, attraverso un contatto subliminale con il pubblico, un linguaggio colmo di sottotesti. Nell’ultima creazione Rolling Idols, la reazione del pubblico ci ha fatto capire che l’abbiamo toccato, in diversi punti, corpo e anima, indipendentemente dall’età. Vorrei parlare ad un pubblico senza tempo e senza particolari posizioni sociali, semplicemente al pubblico che ha voglia di venire a teatro.

Che rapporto hai con i tuoi danzatori e come li definiresti nella loro complessità artistica?

Sono danzatori giovani, sempre meno giovani perché passano gli anni anche per loro. Sono forti, immediati, generosi.

Siamo amici e ti ho sempre apprezzata per il tuo carattere forte, per la tua determinatezza ma anche per il tuo sorriso dolcissimo. Com’è realmente Susanna Beltrami?

In questo momento non te lo so dire. Sento che sono dentro un passaggio delicato, vedo il mondo con occhi diversi, mi rifugio nella “mia” isola cicladica Amorgos, appena posso, per cercare l’incanto e mi perdo nella meraviglia di mia figlia che cresce. Domani non so cosa sarò, vivo alla giornata e cerco di affrontare le mie debolezze, tutte quelle che la gente non vede o meglio non vuole vedere, preferibile aver a che fare con una persona forte e determinata, che occuparsi di una persona debole. Ma credo anche di poter essere molto dolce per chi ha voglia di riconoscerlo.

Hai rimpianti sul lato artistico, qualcosa che non si è mai realizzato ma a cui ci tenevi particolarmente?

Nessun rimpianto, la mia vita e la mia carriera mi sembrano oggi veloci come un soffio… una corsa nel vento, nessun astio, nessuna cicatrice, tutto perfettamente guarito. Ci sono mancanze grandi come il mondo ma sono esse stesse la spinta a cercare di colmarle.

Tra tutti i tuoi balletti o creazioni a quale sei più affezionata?

Tutti perché ognuno di essi corrisponde ad un momento particolare della mia vita, nella gioia e nel dolore.

Ami leggere? Quali sono i tuoi autori preferiti e le tue letture da tenere sempre sul comodino?

Adoro leggere, parto nei miei lavori sempre da materiale letterario. Adoro la drammaturgia contemporanea, i filosofi contemporanei con un piede nell’antropologia, il romanzo come saga dei sentimenti e molto la poesia.

Come si svolge normalmente la tua giornata in DanceHaus?

Tra mille cose toste e meravigliose.

Oltre alla danza, trovi il tempo per andare a teatro o al cinema? Cosa ami maggiormente assistere?

Sì mi piace molto seguire il teatro e il cinema, ma non tanto quello di cassetta, adoro andare a rispolverare titoli vecchi e autori che secondo me sono molto vicini alla corporeità.

Insieme ne abbiamo parlato spesso e nutriamo una passione in comune: le danze di Carattere! Quali emozioni ti suscitano?

Adoro le danze di carattere perché quello che mi piace è scoprire nel gesto, così come nel passo, il suo valore antropologico, la radice di provenienza, l’idea che la danza appartiene comunque al patrimonio dell’umanità, tanto quanto, la valle dei Templi, il Partenone…

Che rapporto hai con lo specchio? Elemento fondamentale per un danzatore in sala prove?

Domanda azzeccata, in DanceHaus non ci sono specchi… una scelta convinta, lavorare sull’autocontrollo, sull’identità, sulla concentrazione.

Nel tuo periodo newyorchese di studio che aria si respirava?

Una nascita, una spinta verso il futuro, il respiro del progresso, la magnificenza, la modernità, la libertà, ma anche le prime morti di Aids, tra amici, artisti… dolore e paura, insomma un tutto e il contrario di tutto, quella meravigliosa esperienza che è sentirsi piccolo ma parte di un mondo enormemente affascinante.

Al tuo ritorno in Italia hai avuto prestigiosi incarichi didattici per i corsi di formazione al Teatro alla Scala di Milano e per l’atelier di teatro-danza della Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi. Come ti hanno arricchito queste esperienze?

Ho bellissimi ricordi di quegli anni, ho condiviso un percorso con colleghi e allievi che porto tutti con me.

Per concludere, mi dai una tua personale definizione dell’essenza della Danza?

Rispondo con una frase regalatami dal filosofo Galimberti “chi non danza non sa”.

Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

 

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