Sonorità tribali a sipario chiuso: questo il benvenuto agli spettatori del Teatro Europauditorium di Bologna la sera del 3 febbraio scorso, poco prima dell’inizio di Opus Cactus della compagnia Momix. Il titolo suggerisce infallibilmente l’ambiente, l’atmosfera e l’immaginario da cui il coreografo Moses Pendleton ha tratto ispirazione per questo successo, sulle scene dopo dieci anni di stand-by: il deserto, con la sua calura eccitante e disarmante al contempo, con la sua desolazione abitata da creature fuori dalla realtà. Ma, come di consueto, il genio del coreografo va ben oltre la geografia e la biologia per stuzzicare le menti in platea. Aprono le danze tre cowboy in jeans, frange e cappello da rodeo, impegnati a cavalcare il palcoscenico su dei piccoli trampoli, prolungamento di una sola gamba. Il tutto sulle note di Santa Maria (Del Buen Ayre) dei Gotham Project. Quale modo più intrigante di associare al machismo americano la passione latina, attraverso una sequela di gag e equilibrismi sfortunatamente mal eseguiti dai performer in scena. Seguono rovi luminosi, molleggianti lungo tutto il proscenio: un chiaro esempio di come la natura possa abbandonare il proprio status originario per mutare in qualcos’altro, qualcosa di straordinariamente diverso, artefatto appositamente per stupire anche ...
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