Simone Valastro è una delle voci più autorevoli nel panorama della danza contemporanea internazionale. Dopo essersi diplomato alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala nel 1998, entra nel Balletto dell’Opéra di Parigi, dove raggiunge alti traguardi, ricevendo nel 2008 il premio AROP e nel 2009 il titolo di miglior ballerino italiano all’estero. Oltre alla sua carriera di danzatore, ha debuttato come coreografo nel 2008 e ha fondato, insieme ad Alessio Carbone, la compagnia Les Italiens de l’Opéra nel 2016. Dopo essere stato protagonista sulle scene di teatri prestigiosi come l’Opéra di Parigi, ha saputo imporsi come coreografo, firmando creazioni per compagnie di grande tradizione come il Bol’šoj, l’Opera di Roma, e il Teatro alla Scala. La sua traiettoria artistica non è solo un racconto di successo, ma una riflessione costante sull’evoluzione del linguaggio coreografico e sulla relazione tra passato e futuro nella danza. Nel 2025, Simone Valastro è designato coreografo del progetto Le Stelle di Domani, un’iniziativa del Balletto di Venezia con la partecipazione di 12 giovani danzatori internazionali, selezionati tra le migliori istituzioni di formazione, come l’Académie Princesse Grace di Montecarlo, l’Accademia Teatro alla Scala di Milano, l’ABT/J.K.O. School di New York, l’École de Danse de l’Opéra National de Paris, la Royal Ballet School di Londra e la Royal Swedish Ballet School di Stoccolma. Il 19 luglio 2025, lo spettacolo, esito diretto della residenza artistica da lui curata per “Le Stelle di Domani”, è stato presentato nella meravigliosa cornice di Orsolina28 Art Foundation di Moncalvo.
La Sua carriera ha visto un passaggio significativo dalla pratica della danza alla creazione coreografica. Com’è cambiata, in questa transizione, la sua comprensione del movimento e in che modo la Sua esperienza da interprete ha influenzato il suo approccio alla coreografia?
All’inizio della mia carriera mi sono concentrato principalmente sull’interpretazione e sull’esecuzione del movimento, senza riflettere troppo su come si origina o su quali siano i principi che lo governano. Era qualcosa che vivevo in modo molto istintivo. Tuttavia, quando ho iniziato a passare alla creazione coreografica, è stato fondamentale comprendere le basi del movimento e i suoi meccanismi. Da coreografo, ho dovuto imparare a decodificare e a tradurre quelle intuizioni corporee in concetti più razionali e strutturati. Elementi della mia esperienza da interprete, come la capacità di ascoltare e rispondere al corpo e di dialogare con l’emotività, sono diventati fondamentali nel mio approccio alla coreografia, integrando, quindi, l’intuizione e l’energia che il corpo porta in scena con una riflessione più profonda sul gesto, cercando sempre un equilibrio tra istinto e consapevolezza.
La sua formazione alla Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala le ha sicuramente fornito una solida preparazione tecnica e interpretativa. In che misura la rigorosità del balletto classico continua a permeare il suo linguaggio coreografico, pur nella sua costante ricerca di innovazione? Vi è una dialettica tra tradizione e modernità nel suo lavoro, o ritiene che queste dimensioni possano coesistere in una visione armonica?
La danza classica permea sicuramente il mio linguaggio. Come ballerino con una formazione classica di base, non credo che riuscirei a lasciarla completamente da parte; non sarebbe proprio possibile. Pertanto, il linguaggio classico è presente nel mio lavoro, anche se in una forma che non ha nulla di decorativo. Ad esempio, a livello delle braccia, prediligo un movimento molto naturale, ma tutti i meccanismi che permettono al corpo di muoversi provengono dalla mia formazione classica. La tecnica classica, inoltre, include una serie di passi acrobatici estremamente impressionanti, e sarebbe davvero un peccato non continuarli a utilizzare. Così, a volte, nei miei pezzi, i ballerini – soprattutto se ne hanno le capacità – eseguono passi acrobatici tipici della tecnica classica, che vengono però adattati in modo da risultare meno rigidi e più naturali, soprattutto nelle braccia, pur mantenendo un certo grado di acrobaticità.
La Sua carriera come danzatore, con esperienze significative come quella all’Opéra di Parigi, Le ha sicuramente fornito una prospettiva unica. Come queste esperienze hanno influito sulla Sua formazione artistica e sul Suo approccio alla coreografia?
Ho avuto la fortuna di fare molte esperienze con tanti coreografi contemporanei, e questa è una delle bellezze dell’Opera di Parigi: un po’ tutti passano da lì. Penso che il mio linguaggio sia una sorta di sintesi di tutti questi stili che il mio corpo ha avuto modo di conoscere e sperimentare. Non parlo solo di linguaggio in termini di passi, ma anche di metodo. Ho avuto la possibilità di osservare come ciascun coreografo costruisce un balletto e ho notato che ogni coreografo ha un approccio diverso. Non esiste una scuola di coreografia che imponga un solo metodo, e io ho avuto la fortuna di poter sperimentare stili diversi. Alla fine, mi sono fatto una mia personale idea di come la danza dovrebbe essere, che, di conseguenza, si riflette su come concepisco e creo un pezzo.
Nel Suo lavoro con compagnie di rilevanza internazionale come il Bol’šoj, l’Opera di Roma e la Scala, ha avuto modo di confrontarsi con stili e contesti culturali molto diversi. In che modo ha adattato la sua concezione artistica alla specificità di ciascun teatro e di ciascuna compagnia?
Mi sono adattato molto poco. In realtà, sono stati loro ad adattarsi a me. Penso che la cosa più importante per un coreografo, soprattutto quando sia essere consapevoli che si incontreranno sempre nuovi ballerini. C’è, quindi, c’è sempre questo “problema” di ricominciare da zero, con ballerini che devono imparare tutto da capo. La cosa fondamentale è non tradire mai sé stessi. Non si deve mai cadere nella tentazione di pensare, ad esempio: “Vado al Bolshoi, dove non hanno mai fatto contemporaneo, quindi faccio un pezzo super classico”. Anche al Bolshoi mi sono imposto con il mio linguaggio. All’inizio c’è stata diffidenza, insicurezza, e alcuni ballerini si chiedevano se ce l’avrebbero fatta, ma alla fine ce la fanno sempre. I ballerini classici hanno una capacità incredibile di adattarsi, di imparare, e di voler entrare in stili diversi. A volte, la loro paura più grande è quella di farsi male, ma, comunque, alla fine, non mi sono mai dovuto adattare troppo. Questo anche perché, generalmente, le compagnie con cui lavoro sono ibride, danzano sia classico che contemporaneo, quindi mi ci ritrovo.
C’è una peculiarità che, a Suo avviso, contraddistingue le differenti tradizioni teatrali che ha incontrato? Qual è la principale differenza che ha riscontrato nel lavorare con realtà così diverse, e come si adatta a ciascun contesto?
Ovviamente, in ogni teatro ci sono regole e specificità, anche a livello di organico. Dipende molto dalle compagnie: ad esempio, il Bolshoi ha più di 200 ballerini, mentre il Teatro San Carlo ne ha molti meno. Come coreografo invitato, bisogna ricordare che si è come “intrusi”, e quindi, quando si arriva in una nuova compagnia, è fondamentale adattarsi al suo funzionamento, ai suoi orari e, molto spesso, anche alle sue regole sindacali, che sono forse la parte più noiosa. A seconda della cultura, le regole cambiano. A volte sembrano quasi assurde, ma purtroppo bisogna adattarvisi.
Le sue creazioni coreografiche si distinguono per la complessità e la profondità emotiva. Come definirebbe il Suo approccio alla composizione? Quali sono i principi fondanti della sua ricerca coreografica?
Cerco di creare immagini attraverso il corpo che possano suscitare nel pubblico un’idea, qualcosa che risuoni con il loro vissuto e le loro esperienze. L’obiettivo è suscitare emozioni, e per me questa è una cosa fondamentale. Non mi interessa affatto provocare, ma piuttosto creare. Mi affascina l’estetica, ed è sicuramente una componente che deriva dalla mia formazione classica. Come dicevo prima, la base classica mi è estremamente utile, e non sto affatto cercando di chiudere quel capitolo per aprirne un altro.
Il 19 luglio 2025, a Moncalvo, sullo straordinario palcoscenico open air di Orsolina28 Art Foundation, è andato in scena “Le Stelle di Domani”, frutto della sua residenza artistica con giovani talenti provenienti da diverse realtà coreutiche. Come ha adattato il Suo approccio coreografico per rispondere alle esigenze e alle potenzialità dei giovani danzatori che hanno preso parte al progetto?
Ancora una volta, non mi sono voluto adattare più di tanto. Diciamo che non conoscevo affatto i ballerini, dieci danzatori che ho incontrato solo per pochi giorni. È stato, quindi, un lavoro un po’ accelerato, dove ho cercato di capire il più possibile chi fossero, le loro specificità fisiche e anche le loro personalità, per poterli inserire al meglio nel pezzo che ho creato, tutto in tempi molto rapidi. L’unica cosa che ho adattato è il tipo di passi che sono andato a sviluppare, perché questo spettacolo include anche pezzi di danza classica di alto livello. Come si sa, i ballerini classici sono particolarmente vulnerabili da quel punto di vista; dunque è stato necessario fare molta attenzione a evitare movimenti che potessero causare infortuni, soprattutto alle ginocchia, alle caviglie e alla schiena. A tale scopo, ho evitato completamente il floor work, perché avrebbe potuto essere rischioso. Questa è forse l’unica area in cui mi sono adattato, cercando di creare un pezzo con molta energia, che si inserisse in questo contesto ibrido di danza classica e contemporanea, ma al tempo stesso in contrasto con gli altri pezzi, che sono molto classici e raffinati.
In che misura il progetto “Le Stelle di Domani” rappresenta una continuità o un’evoluzione nella Sua ricerca coreografica? Cosa spera che il pubblico percepisca di nuovo e distintivo nel Suo approccio in questa creazione?
Vorrei soprattutto mostrare il potenziale di un ballerino classico e sfruttare l’energia che hanno questi ragazzi, che sono davvero giovanissimi. Non credo di aver mai lavorato con danzatori così giovani, che, tra l’altro, sono come delle spugne: hanno dimostrato di imparare con una velocità impressionante. La cosa che mi affascina di più è proprio la loro energia, una vitalità che io, con l’età, non ho più, ma che loro possiedono in abbondanza. Quello che voglio davvero mettere in evidenza con questo progetto è l’ambivalenza del ballerino classico. Voglio creare un parallelismo tra il passato e il presente. Nella coreografia c’è una ballerina sulle punte, mentre gli altri danzatori sono a piedi nudi o con i calzini, creando così un confronto visivo. Ma c’è anche una permeabilità tra questi due mondi. È proprio questa dinamica che voglio esplorare. Finora non avevo mai creato pezzi contemporanei sulle punte, quindi questa è una novità per il mio processo creativo.
Con il passare degli anni, la danza contemporanea ha acquisito una visibilità crescente, talvolta anche in antitesi al repertorio classico. Come possono conciliarsi questi due mondi, a Suo avviso nell’ottica di una continua esplorazione della danza come linguaggio in grado di affrontare le sfide estetiche e culturali del nostro tempo?
Ho notato, per esempio, all’Opéra di Parigi, che la mia generazione era in grado di ballare praticamente tutto. Passavamo da Lago dei Cigni a Mats Ek nella stessa sera, eravamo molto polivalenti. Era forse anche un linguaggio contemporaneo che si adattava abbastanza facilmente alla tecnica classica. Oggi, invece, noto che ci stiamo dirigendo verso stili che diventano quasi incompatibili con la danza classica. Tant’è che alcuni ballerini rinunciano completamente alla danza classica per dedicarsi solo al contemporaneo. Trovo che questo sia un peccato, perché è come rompere un legame, una sorta di passerella tra la tradizione e il futuro. Personalmente, credo ancora che il ballerino debba essere polivalente, capace di fare tutto.
Quali sono le emozioni, i temi o le domande esistenziali che desidera esplorare nelle Sue creazioni?
I temi che esploro sono talmente vari e vasti che non saprei dire quali siano i principali. Però, posso dire cosa sicuramente non intendo affrontare. Non mi sento di strumentalizzare la coreografia a scopi politici. Non è qualcosa che mi appartiene, semplicemente perché non mi considero una persona particolarmente colta, e non penso di poter offrire lezioni o messaggi politici attraverso il mio lavoro. Mi astengo da questa direzione. Inoltre, non sono neppure una persona alla ricerca di provocazioni; come diceva Kylian, sono un po’ un “fanatico dell’estetica”. Quando lo spettacolo finisce, il mio desiderio è che il pubblico sia soddisfatto di ciò che ha visto, che abbia trascorso un bel momento. Le emozioni sono sicuramente un aspetto fondamentale.
Crede che la danza debba necessariamente comunicare un messaggio esplicito, o ritiene che debba lasciare spazio a un’interpretazione più libera da parte dello spettatore?
Mi piace l’idea di trasmettere un messaggio, ma senza renderlo completamente esplicito, lasciando spazio all’interpretazione del pubblico. Penso che, se una persona percepisce qualcosa durante lo spettacolo e questa percezione richiede una riflessione, significa che il pubblico è attivamente coinvolto, mentalmente stimolato. Quando il cervello non è in grado di ragionare su ciò che sta vedendo, l’analisi diventa impossibile e, di conseguenza, si arriva alla noia, oppure si rimane a livello puramente estetico. E, personalmente, non vorrei mai che qualcuno, dopo aver visto uno dei miei pezzi, si limitasse a dire: “Che belli i ballerini”. Per me, una reazione puramente estetica non ha senso. Quindi, sì, c’è sicuramente un messaggio, ma è un messaggio che richiede di essere analizzato, compreso e interpretato.
In un contesto in continuo cambiamento, come immagina l’evoluzione della danza nei prossimi decenni, sia dal punto di vista estetico che concettuale? Ritiene che possa adattarsi alle trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche? Quali sfide o opportunità crede che possano emergere in questo processo?
Le mentalità continuano a cambiare, e io stesso, a 46 anni, mi trovo a non identificarmi più con certi concetti. In un certo senso, mi sento quasi “vecchio”. È fondamentale rimanere al passo con i tempi, anche se non so esattamente dove stiamo andando. La storia ci ha insegnato che, a volte, ci sono mode cicliche e che certi principi fondamentali tornano. Chi lo sa, forse un giorno torneremo tutti con il tutù e le punte, non posso dirlo. Quello che è certo è che bisogna mantenere una certa elasticità, un’apertura mentale. Forse una cosa che mi spaventa un po’ è la crescente permeabilità tra il sesso maschile e femminile, e la difficoltà a definire chiaramente le due figure. Personalmente, sono ancora molto legato a questa distinzione, un po’ alla maniera di Pina Bausch. Mi piace utilizzare la fisicità e la forza virile dell’uomo, e la leggerezza, delicatezza e sensualità della donna. Se un giorno mi trovassi in una compagnia dove mi dicessero che non posso separare uomini e donne, mi chiedo come reagirò. Non che non troverei una soluzione, ma non so esattamente quale sarebbe. Quello che è importante, comunque, è non tradire sé stessi, tener fede all’artista che è in noi.
Lorena Coppola
Photo Credits: Simone Valastro
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