Find the latest bookmaker offers available across all uk gambling sites www.bets.zone Read the reviews and compare sites to quickly discover the perfect account for you.
Home / News / Vaslav Nijinsky: il silenzio del Dio Danzante

Vaslav Nijinsky: il silenzio del Dio Danzante

Nascita di un prodigio (1889-1900)
Il corpo come rivelazione Nella storia dell’arte, pochi corpi hanno avuto il potere di riscrivere le regole del visibile. Vaslav Nijinsky, danzatore e coreografo vissuto tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, fu uno di questi corpi. La sua figura – esile, potente, enigmatica – si staglia come un’icona nella memoria della danza e dell’immaginario moderno. Ma chi era veramente Nijinsky? L’infanzia nel rigore zarista, l’ascesa fulminea con i “Balletti Russi”, le rivoluzioni coreografiche che spaccarono in due la danza classica, e infine il crollo psichico che lo rese silenzioso per oltre trent’anni. Scrivere di Nijinsky significa scrivere del corpo, ma anche del silenzio. Significa osservare come la bellezza, la sofferenza e la follia si siano fuse in un unico gesto, in un solo salto, in un attimo di sospensione. Quella sospensione che, secondo molti, lo rese capace di volare.

Un’infanzia tra le quinte
Vaslav Fomič Nijinsky nasce il 12 marzo 1889 a Kiev, nell’Impero Russo, in una famiglia di ballerini itineranti di origine polacca. La sua infanzia si svolge in un ambiente pervaso dal ritmo della danza, dal suono del pianoforte per le prove, dalle luci mobili del palcoscenico e dall’odore dei teatri di provincia. I genitori, Tomasz Nijinsky e Eleonora Bereda, erano entrambi danzatori del corpo di ballo imperiale. Vivevano in un eterno spostamento tra tournée e scuole di danza improvvisate. Questa precoce esposizione all’arte scenica non fu soltanto formativa, ma strutturale. Nijinsky non conobbe un’infanzia separata dall’arte: nacque già immerso nel mondo del movimento, dell’osservazione e della ripetizione. I suoi primi giochi furono passi, imitazioni, piccoli saggi improvvisati. Il suo primo linguaggio fu il gesto. Eleonora, madre devota e figura centrale nella formazione dei figli, seppe riconoscere nei movimenti di Vaslav qualcosa di diverso: un’intelligenza corporea fuori dal comune, una naturalezza inquietante nella memorizzazione e nella riproduzione dei gesti. Il piccolo Vaslav era timido, silenzioso, a tratti quasi assente. Ma quando danzava, sembrava svegliarsi da un sonno. Aveva anche due fratelli: Bronislava Nijinska, futura coreografa e figura cardine della danza moderna, e Stanislas, di salute più cagionevole. La relazione con Bronislava fu intensa, nutrita da una complicità artistica profonda che sfocerà più tardi in collaborazioni coreografiche e reciproca influenza. Fin da piccoli si osservavano e si correggevano a vicenda, giocando a diventare i protagonisti di spettacoli immaginari, con una serietà che prefigurava il loro destino artistico. Nel 1894, a soli cinque anni, Vaslav assiste ad una rappresentazione de La Bayadère, e ne resta sconvolto. Più che lo spettacolo, lo colpì la struttura invisibile della performance: le entrate e le uscite, le linee del corpo, l’ordine geometrico della scena. Per un bambino, questa attenzione alla forma piuttosto che al contenuto narrativo era un segnale precoce di una mente orientata alla composizione visiva e spaziale. A sei anni comincia a ricevere lezioni di danza più strutturate da parte della madre. Nel 1898, a soli nove anni, viene ammesso alla Scuola Imperiale di Balletto di San Pietroburgo, la più prestigiosa istituzione coreutica dell’epoca. L’ammissione non fu semplice: la rigidità dei criteri, la selettività dell’ingresso e lo status etnico dei candidati giocavano spesso contro chi, come Nijinsky, proveniva da famiglie di artisti di origini miste e non aristocratiche. Ma il suo talento parlò da sé. Il corpo degli esaminatori vide in lui qualcosa che non si poteva insegnare: una grazia innata, un’aderenza al ritmo naturale, una presenza magnetica. L’ingresso nella scuola imperiale rappresenta per Nijinsky l’inizio di una nuova fase, segnata da una disciplina ferrea. Qui si impartivano lezioni con metodo militare: ore e ore di esercizi alla sbarra, studio del francese, della storia, dell’etichetta di corte. Ogni movimento doveva rispettare un canone stabilito, ogni passo veniva ripetuto fino allo sfinimento. Ma Vaslav si distingueva. Non per la sua adesione passiva alle regole, ma per la sua capacità di assorbirle e trasformarle. Imparava rapidamente, ma non si limitava a riprodurre: spesso reinventava, suggeriva variazioni, aggiungeva sfumature. I maestri erano divisi: alcuni lo consideravano indisciplinato, altri un genio ribelle. Questa tensione tra rigore accademico e impulso creativo sarà uno dei motori principali della sua parabola artistica. E anche della sua instabilità interiore. Fin da piccolo, Nijinsky visse nel conflitto tra l’ordine imposto e l’intuizione irrazionale, tra la forma e l’istinto. Una tensione che, se da un lato lo rese unico come interprete, dall’altro cominciò a scavare dentro di lui una frattura profonda.

San Pietroburgo e la disciplina imperiale
Quando Vaslav Nijinsky varcò le porte della Scuola Imperiale di Balletto di San Pietroburgo, aveva appena nove anni. Ma non era più un bambino comune: era un corpo in formazione, destinato a essere plasmato secondo le leggi severe dell’estetica zarista. Qui il talento non era sufficiente. Era necessario sottometterlo ad una disciplina quasi monastica: si danzava fino allo sfinimento, si studiava il francese per comprendere la terminologia classica, si imparava a inchinarsi con la grazia richiesta alla corte. Il balletto, nella Russia imperiale, era un’estensione del potere statale, una rappresentazione vivente dell’equilibrio, della simmetria e del controllo. Per il giovane Nijinsky, questo ambiente rappresentava un paradosso: da un lato, ne subiva la rigidità con insofferenza; dall’altro, ne riconosceva la necessità formativa. Era un allievo eccellente, ma mai del tutto docile. Tra i suoi insegnanti si annoverano figure di grande influenza come Enrico Cecchetti, il leggendario maestro italiano che codificò un sistema tecnico rigoroso e ancora oggi studiato nelle scuole di danza. Cecchetti notò immediatamente l’inconsueta leggerezza nei salti di Nijinsky, la sua capacità quasi innaturale di sospendersi nell’aria, come se il corpo sfuggisse momentaneamente alla legge di gravità. Il giovane Vaslav non eccelleva soltanto nei salti: mostrava una comprensione musicale intuitiva e una mimica naturale, elementi rari in un ambiente dove la danza era ancora vista più come geometria del corpo che come espressione dell’anima. Ma il rigore accademico non gli lasciava spazio per l’invenzione. Doveva conformarsi, imparare le “regole del gioco”, guadagnarsi la fiducia dell’istituzione prima di osare deviare dal tracciato. Questa esperienza alimenterà più tardi la sua esplosiva necessità di rompere il codice, di inventare nuovi linguaggi coreografici. Ma per il momento, la sopravvivenza era adattamento. Nonostante i progressi e i successi scolastici, la permanenza alla scuola imperiale fu anche un tempo di solitudine. Il giovane Vaslav era considerato strano dai compagni: parlava poco, aveva uno sguardo assente, spesso sembrava assorto in pensieri inaccessibili. Non partecipava volentieri alla vita sociale degli altri allievi e manteneva un legame quasi esclusivo con la sorella Bronislava, che nel frattempo era stata ammessa anch’ella alla scuola. Fu proprio in questo periodo che emersero i primi segni di una dissociazione emotiva, che più tardi verranno interpretati come prodromi della malattia mentale. Ma allora, erano semplicemente visti come “capricci di artista”. Il suo silenzio cominciò a diventare un tratto distintivo, una forma di comunicazione alternativa. Quando parlava, lo faceva con frasi brevi, precise, a volte taglienti. Ma quando danzava, sembrava dire tutto ciò che le parole non riuscivano a contenere. Durante gli anni di studio, gli allievi più promettenti venivano selezionati per apparire nei balletti del Teatro Mariinskij. Nijinsky ebbe l’onore di debuttare in alcune piccole parti, ma fu presto evidente che la sua presenza scenica era sproporzionata al ruolo assegnato: lo sguardo del pubblico si fermava su di lui, anche quando non era il centro dell’azione. Questo potere magnetico era qualcosa che andava oltre la tecnica. Era carisma puro, energia vitale che irradiava dallo sguardo, dalle linee del corpo, dalla sicurezza dei gesti. Era teatro incarnato, non solo danza. I critici e gli insegnanti cominciarono a notare che Nijinsky possedeva una singolarità anatomica: una straordinaria elasticità tendinea, una muscolatura asciutta e reattiva, piedi ad arco altissimo e un centro di gravità basso. Tutti elementi che gli permettevano equilibri inverosimili e una leggerezza sorprendente nei salti. Non era alto, né imponente, ma si imponeva. Il suo corpo sembrava progettato per la danza, ma anche per superarla, trascenderla. Più che una macchina ben oliata, Nijinsky era un organismo in dialogo con lo spazio. Non occupava la scena: la trasformava. Nel 1907, a diciotto anni, Vaslav Nijinsky si diploma con il massimo dei voti, ottenendo un contratto come solista al Teatro Mariinskij. Il ragazzo solitario e taciturno era ora un professionista della danza, proiettato verso una carriera di successo nell’ambiente più prestigioso dell’Impero. Ma questo successo iniziale, seppur gratificante, non lo soddisfa. Già allora intuiva che la danza accademica, per quanto perfetta, era limitante. Avvertiva la necessità di un nuovo linguaggio, più diretto, più fisico, più emotivo. E quella necessità prenderà forma poco dopo, grazie ad un incontro destinato a cambiare la storia dell’arte del Novecento: Sergej Pavlovič Djagilev.

L’incontro con Diaghilev: Arte, potere e desiderio
Nel 1908, un anno dopo il suo ingresso ufficiale al Teatro Mariinskij, Vaslav Nijinsky viene notato da un uomo che non era un danzatore, né un coreografo, ma che avrebbe avuto su di lui un’influenza assoluta. Il suo nome era Sergej Pavlovič Djagilev: aristocratico, colto, carismatico, editore d’arte e mecenate visionario, fondatore della rivista “Mir Iskusstva” (Il mondo dell’arte), e futuro direttore dei “Balletti Russi”. Djagilev non cercava semplicemente talenti: cercava corpi capaci di incarnare una visione. E quando vide Nijinsky, lo riconobbe immediatamente come “altro”, come necessario. Era la materia ideale per il suo progetto: una danza che rompesse con il classicismo rigido dell’Impero e si proiettasse in una nuova modernità artistica. Il loro primo incontro non fu uno scambio tra pari, ma l’avvio di un rapporto complesso, fatto di ammirazione, potere, erotismo e dipendenza. Per Djagilev, Nijinsky non era solo un danzatore: era un’opera vivente. Per Nijinsky, Djagilev fu al tempo stesso mentore, amante e carceriere. Nel 1909 Djagilev fonda i “Balletti Russi” a Parigi, una compagnia destinata a riscrivere la storia della danza. L’obiettivo era semplice ma ambizioso: portare in Europa occidentale il meglio della cultura russa, mescolando danza, pittura, musica e teatro in un’unica esperienza estetica totale. I Balletti Russi erano rivoluzionari già nella concezione: Djagilev univa le avanguardie artistiche, commissionava le scenografie a Bakst, Benois, Picasso, e le musiche a compositori come Stravinskij, Ravel, Debussy. La danza non era più solo movimento: diventava arte sinestetica, teatro visivo, composizione simbolica. Nijinsky fu l’anima danzante di questa rivoluzione. Il potere di un amore sbilanciato Il rapporto tra Djagilev e Nijinsky fu sin da subito intimo e controverso. Djagilev, più anziano di tredici anni, era omosessuale dichiarato in un’epoca in cui lo scandalo era sempre in agguato. Non nascondeva la sua attrazione per Vaslav, e fu lui stesso ad istruirlo, a curarne l’aspetto, a guidarne le scelte artistiche e personali. Per molti, il giovane danzatore divenne un “progetto” di Djagilev: modellato, educato, raffinato, come una scultura viva. Ma questo controllo ebbe anche un prezzo. Il confine tra protezione e dominio si fece presto sottile. Nijinsky, di carattere chiuso e vulnerabile, trovò inizialmente conforto in questa guida. Ma col tempo, iniziò a sentirsi prigioniero di un sistema che lo definiva più di quanto lui stesso riuscisse a definirsi. Il desiderio, in questa relazione, era inseparabile dal potere. Il debutto dei “Balletti Russi” a Parigi fu un’esplosione. Il pubblico francese, affascinato dall’esotismo russo, fu travolto dalla forza visiva e sensuale delle esibizioni. Nijinsky, in particolare, colpì per la potenza magnetica della sua presenza: non era solo un danzatore virtuoso, era un medium tra l’umano e il divino. Le sue interpretazioni in Le Pavillon d’Armide, Cléopâtre e Les Sylphides mostrarono un’estetica nuova: non più l’eleganza eterea del danzatore classico, ma una fisicità quasi erotica, una presenza animale, istintiva. Il pubblico impazziva. Le donne svenivano, gli uomini restavano muti. Era nato un mito. Bellezza, scandalo e censura Ma con la fama arrivarono anche le controversie. Nijinsky appariva spesso in scena con costumi aderenti, trasparenti, provocanti. Il suo corpo diventò oggetto di desiderio collettivo, e il confine tra arte e scandalo fu spesso varcato. Le cronache del tempo si dividevano: alcuni lo esaltavano come il dio della danza, altri lo accusavano di indecenza e ambiguità morale. Djagilev, maestro della provocazione, alimentava questa ambivalenza. Sapeva che lo scandalo era marketing, e che l’aura erotica di Nijinsky era parte del successo. Ma per Nijinsky stesso, questa esposizione crescente divenne insostenibile. La sua identità profonda – fragile, introversa, spirituale – mal si adattava al ruolo dell’icona sessuale. Questo scollamento tra immagine pubblica e vissuto personale sarà uno degli elementi chiave nella sua futura crisi psichica. Col passare degli anni, la relazione con Djagilev si fece più tesa. Vaslav cominciava a sentire il bisogno di autonomia artistica: voleva coreografare, creare, dirigere. Ma Djagilev non era pronto a lasciargli spazio. Il loro rapporto diventò un campo di battaglia tra affetto e controllo, tra gratitudine e ribellione. In pubblico, erano inseparabili. In privato, cominciavano a parlarsi sempre meno. Nijinsky non apparteneva più solo a Djagilev, ma al mondo intero. E Djagilev, che lo aveva fatto diventare un mito, ora temeva di perderlo. Una profezia che si sarebbe presto avverata.

Il corpo in rivolta: L’Après-midi d’un faune (1912)
Nel 1912, a ventitré anni, Vaslav Nijinsky è ormai una figura consacrata della danza europea. Il suo nome è legato al successo folgorante dei “Balletti Russi”, al genio visionario di Diaghilev, e a un’immagine scenica che oscilla tra divinità pagana e simbolo erotico. Ma sotto la superficie del mito, qualcosa si incrina. Nijinsky, che fino a quel momento è stato il corpo ideale dell’estetica altrui, comincia a desiderare un’espressione personale, autonoma, profondamente sua. E lo fa nel modo più radicale possibile: creando una coreografia che nega quasi tutti i codici del balletto classico, a cominciare dal movimento stesso. Nasce così L’Après-midi d’un faune (Il pomeriggio di un fauno), su musica di Claude Debussy, ispirata all’omonimo poema simbolista di Stéphane Mallarmé. L’opera segna un punto di rottura irreversibile nella storia della danza. La prima provocazione di Faune è visiva: i movimenti non fluiscono, ma si spezzano, si bloccano, si frontalizzano. I danzatori si muovono come figure bidimensionali, con gesti angolari e pose scolpite. L’intero balletto sembra una rappresentazione arcaica, quasi pittorica, come se fosse inciso su un vaso greco o scolpito in un bassorilievo assiro. Nijinsky abbandona la rotazione fluida del corpo, tipica della danza classica, per adottare movimenti geometrici, spezzati, rituali. Il corpo non è più etereo: è minerale, terragno, sessuato. Le linee non sono più curve ma taglienti. Il fauno non “danza”: striscia, avanza, desidera. È una rivoluzione silenziosa, ma devastante. Se la forma coreografica rompe con la tradizione, il contenuto è ancora più dirompente. Il fauno – interpretato da Nijinsky stesso – è una creatura mitologica, sospesa tra uomo e bestia, che insegue un gruppo di ninfe. Dopo il loro passaggio, ne raccoglie il velo lasciato a terra, lo accarezza, lo stringe, e infine si abbandona a un gesto apertamente masturbatorio. Il finale – una trasgressione sessuale esplicita – fu considerato scandaloso. Ma più ancora del gesto in sé, fu lo sguardo di Nijinsky, fisso sul pubblico, imperturbabile, quasi sacrilego, a colpire. Per la prima volta, il desiderio non era alluso: era dichiarato. E la danza, per secoli votata alla sublimazione, diventava carne e istinto. La prima rappresentazione, al Théâtre du Châtelet di Parigi, suscitò una tempesta di reazioni contrastanti. Alcuni membri dell’élite culturale applaudirono con entusiasmo; altri – tra cui il celebre critico Gaston Calmette – gridarono allo scandalo, accusando Nijinsky di oscenità. Molti critici non capirono. Alcuni si limitarono a sottolineare “l’assenza di danza”. Ma il punto era proprio quello: Nijinsky stava ridefinendo la danza stessa. Non più solo come bellezza o abilità, ma come linguaggio del desiderio, come dramma corporeo. Nel pubblico, tuttavia, c’erano anche figure come Auguste Rodin e Isadora Duncan, che riconobbero immediatamente l’importanza dell’opera. Con L’Après-midi d’un faune, Nijinsky introduce una grammatica coreografica inedita, fatta di gesti trattenuti, tensione sessuale, posture fisse. Ogni movimento è caricato di significato simbolico, ma anche di carnalità. Il corpo non è più solo strumento espressivo, ma territorio di conflitto. Per molti storici della danza, questo balletto segna l’inizio della danza moderna in Europa. Non perché inventi nuove tecniche, ma perché scardina i fondamenti stessi dell’arte coreutica: l’idea che il bello coincida con il fluido, il celestiale, l’astratto. Nijinsky, con Faune, restituisce alla danza la sua animalità e il suo peso. L’uomo che non parlava, ma urlava col corpo Nijinsky non scrisse trattati, né lasciò testimonianze teoriche. Ma con questa coreografia parlò come pochi altri nella storia. Il suo silenzio verbale diventava, sulla scena, un grido esistenziale. Il fauno che accarezza un velo e si accascia nel piacere è anche l’uomo che, nella vita, non riesce a comunicare se non attraverso il gesto. La potenza di Faune sta proprio in questo: è una confessione muta, una rivelazione carnale, una rivoluzione fatta senza proclami, ma con un corpo che si rifiuta di obbedire.

Le Sacre du printemps e la nascita della modernità (1913)
Nel 1913, Vaslav Nijinsky ha appena ventiquattro anni e ha già rivoluzionato la danza con L’Après-midi d’un faune. Ma ciò che sta per accadere va oltre ogni esperimento coreografico: con la creazione di Le Sacre du printemps (La sagra della primavera), Nijinsky e Igor Stravinskij faranno tremare le fondamenta della cultura europea. Letteralmente. Commissionato da Diaghilev per i “Balletti Russi”, Le Sacre nasce come un’opera totale: musica, danza, costumi e scenografia uniti in un’unica visione primitiva, pagana, disturbante. È il manifesto della modernità coreografica, ma è anche il canto del crollo di un’epoca. L’idea narrativa è brutale nella sua semplicità: in una tribù slava ancestrale, durante i riti di primavera, una giovane donna viene scelta per danzare fino alla morte come sacrificio alla terra. La natura, secondo questo mito, si rinnova solo attraverso il sangue e la distruzione. Nijinsky abbraccia questo tema con una radicalità senza precedenti: non cerca di rendere il sacrificio “bello”, né “narrabile”. Il suo scopo non è raccontare, ma evocare. Il movimento in Le Sacre è violento, radicato, sincopato. I danzatori battono i piedi con forza contro il pavimento, le gambe si piegano all’indietro, le braccia si alzano in gesti rigidi e innaturali. Le linee curve vengono bandite; ogni passo è una frattura. La danza smette di essere volo. Diventa peso, attrito, terra. Nijinsky obbliga i danzatori a disarticolare il loro corpo: non più al servizio dell’armonia, ma della tensione collettiva. Non esistono più protagonisti: il gruppo è la forza. Il “corpo” in scena è tribù, istinto, arcaica necessità. Al centro della scena, invisibile ma dominante, c’è la partitura di Stravinskij. Il suo linguaggio musicale è dissonante, martellante, ossessivo. Le frasi ritmiche si sovrappongono, si interrompono, si incastrano in una struttura senza centro. È musica senza melodia, costruita come un rituale sonoro, un arcaico codice di pulsazioni. Il tempo musicale non è più lineare, ma circolare, aritmico, pre-razionale. Nijinsky accoglie questa complessità ritmica non come ostacolo, ma come base strutturale. La coreografia è scritta su schemi numerici, scandita da conteggi ossessivi, spesso impossibili da interiorizzare per i danzatori. Durante le prove, i ballerini sono esausti, confusi, ostili. Alcuni minacciano di abbandonare la compagnia. Ma Nijinsky non cede: vuole rompere tutto ciò che era stato considerato danza fino a quel momento. Il 29 maggio 1913, al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, va in scena la prima. Appena iniziano le prime battute, il pubblico esplode: risate isteriche, fischi, urla, spintoni. Alcuni protestano per la musica, altri per la coreografia. Altri ancora si ribellano al senso stesso dell’opera. Nijinsky è nel backstage. Non può vedere il palco, ma sente il tumulto. Si arrampica su una sedia, urla i conteggi ai danzatori nel caos. Stravinskij lascia il teatro infuriato. Diaghilev, al contrario, è soddisfatto. Per la critica, l’opera è un fallimento. Ma per l’arte del XX secolo, è una nascita brutale e necessaria. Dietro il trionfo e lo scandalo, si consuma però il dramma personale di Nijinsky. L’ossessione per il controllo dei dettagli, l’incomunicabilità con i danzatori, la tensione con Diaghilev (che lo aveva inizialmente osteggiato come coreografo), tutto lo logora profondamente. Le Sacre non è solo una creazione: è un’espulsione, una crisi fisica e mentale riversata sul palco. Dopo la première, Nijinsky non coreograferà più per tre anni. È stremato, isolato, inquieto. Questa opera segna il vertice della sua libertà artistica, ma anche l’inizio del crollo psicologico che lo porterà, di lì a pochi anni, alla follia. Le Sacre du printemps è, in fondo, un balletto sul sacrificio. Ma non solo quello della fanciulla. È il sacrificio del corpo danzante, del canone accademico, della bellezza formale. È la rinuncia definitiva alla grazia, in nome di una verità più antica, più dura, più radicale. È anche il sacrificio di Nijinsky stesso, che offre tutto ciò che è – corpo, mente, anima – alla scena, per tentare di dire l’indicibile con il gesto.

L’esilio da sé: matrimonio e separazione (1913-1914)
Nel 1913, poco dopo la turbolenta première de Le Sacre du printemps, la vita personale di Vaslav Nijinsky subisce un cambiamento altrettanto intenso e doloroso. Nijinsky e Sergej Diaghilev, oltre aD essere collaboratori artistici, avevano vissuto per anni una relazione sentimentale complessa e profonda, carica di tensioni e conflitti di potere. Ma nel 1913, Diaghilev scopre che Nijinsky ha iniziato una relazione con Romola de Pulszky, una giovane donna ungherese appartenente ad una famiglia aristocratica. Romola, appassionata di danza e profondamente innamorata, riesce con determinazione a conquistare Nijinsky, che si ritrova diviso tra l’amore per lei e la fedeltà a Diaghilev. Nonostante la forte opposizione di Diaghilev, nel giugno 1913 Nijinsky e Romola si sposano. Il matrimonio segna l’inizio di una rottura definitiva con Diaghilev e con i “Balletti Russi”. Diaghilev, profondamente ferito e tradito, decide di escludere Nijinsky dalla compagnia e dal suo mondo. Per Nijinsky è l’inizio di un isolamento sia artistico che personale. Il giovane ballerino, che fino a poco tempo prima era il centro pulsante della scena europea, si ritrova senza più il sostegno del suo mecenate e compagno. Lontano dai riflettori, Nijinsky cerca di trovare nuove strade per la sua arte, ma la frattura con Diaghilev e il peso delle aspettative lo schiacciano. In questo clima di tensione crescente, la salute mentale di Nijinsky comincia a deteriorarsi rapidamente. I segni di una psicosi latente, probabilmente esacerbata dalle pressioni psicologiche e fisiche accumulate negli anni di lavoro intenso e di conflitti, si manifestano con sempre maggiore evidenza. Nel 1914, poco dopo l’inizio della prima guerra mondiale, la vita di Nijinsky assume contorni tragici: viene internato in una clinica psichiatrica, in seguito ad una serie di episodi di confusione mentale e crisi psicotiche. Con il progressivo aggravarsi della malattia, Nijinsky è costretto ad abbandonare il palcoscenico. La sua carriera, così fulgida e rivoluzionaria, si interrompe bruscamente. Nel corso degli anni successivi, Nijinsky vivrà in un esilio doloroso, lontano dalla danza, dalla sua arte e dalle persone che aveva amato. La sua figura diventerà quasi mitologica, simbolo del genio tormentato e del sacrificio estremo dell’artista.

Il silenzio e la follia: gli ultimi anni (1915-1950)
Dopo il ricovero nel 1914, Vaslav Nijinsky scompare quasi completamente dal mondo della danza e della cultura. La sua malattia, diagnosticata come schizofrenia paranoide, lo confina in un isolamento che durerà per decenni. Le sue capacità artistiche restano intrappolate in un corpo che non riesce più a danzare e in una mente sempre più frammentata. La moglie di Nijinsky, resta al suo fianco con dedizione e amore nonostante le difficoltà. Cerca di curarlo e di preservare la memoria del suo talento, scrivendo una biografia e organizzando tournée che mantengano viva la sua figura nella memoria collettiva. Ma la malattia ha il sopravvento e Nijinsky rimane prigioniero del suo silenzio interiore. Nonostante l’isolamento, Nijinsky continua a creare nel suo intimo, scrivendo appunti coreografici, schizzi di movimenti, che solo molti anni dopo verranno studiati e valorizzati come anticipazioni della danza moderna. Il suo corpo, anche nella malattia, resta simbolo di una rivoluzione incompiuta e di un’arte che ha voluto superare i limiti del tempo e dello spazio. Vaslav Nijinsky muore il 8 aprile 1950 a Londra, dopo una vita segnata da un talento straordinario e da un destino tragico. Oggi, il suo nome è sinonimo di genio ribelle, di danza che rompe le catene, di un corpo che ha urlato più forte di qualsiasi parola.

L’eredità di un dio danzante: influenze e mito
Vaslav Nijinsky non è stato solo un danzatore e coreografo; è diventato un simbolo, una leggenda. La sua figura ha oltrepassato il tempo, trasformandosi in un mito vivente per generazioni di artisti, storici e appassionati. Il suo corpo, il suo gesto, la sua ribellione continuano a ispirare non solo la danza, ma anche la letteratura, il cinema, la pittura e la filosofia. Le innovazioni introdotte da Nijinsky, soprattutto con L’Après-midi d’un faune e Le Sacre du printemps, hanno spalancato la porta alla danza moderna e contemporanea. Coreografi come Martha Graham, Pina Bausch, e Maurice Béjart hanno riconosciuto l’importanza del suo contributo nel superare la tradizione classica e nel dare voce al corpo come mezzo espressivo autonomo. Negli anni successivi alla sua morte, furono ritrovati i manoscritti di Nijinsky: schizzi, diagrammi e appunti coreografici che testimoniano la sua ossessione per la precisione e la novità. Questi documenti sono diventati materia di studio per studiosi e coreografi, rivelando un artista che non solo danzava, ma che pensava profondamente la danza come linguaggio. La vita e l’opera di Nijinsky sono state raccontate in innumerevoli libri, film, spettacoli teatrali e persino in opere musicali. Il suo tormento interiore, la sua genialità e la sua tragica fine lo hanno trasformato in un’icona romantica del genio maledetto, un archetipo che continua a nutrire la fantasia collettiva. Nonostante il mito, la figura di Nijinsky resta complessa e ambivalente. Uomo di straordinaria sensibilità e forza, vittima di una malattia devastante, simbolo di una modernità che cambiava troppo in fretta per essere compresa. L’eredità di Nijinsky è quindi anche un invito a interrogarsi sul prezzo dell’arte estrema, sulla fragilità del genio e sul potere salvifico – e distruttivo – del corpo in movimento.

La psiche del danzatore: malattia, creatività e isolamento
Dietro la figura mitica di Nijinsky si cela una profonda fragilità psichica. La sua malattia mentale non è mai stata semplicemente una diagnosi clinica, ma una chiave interpretativa indispensabile per comprendere il rapporto tra creatività e sofferenza. Gli studiosi hanno a lungo discusso sulle cause e la natura della malattia di Nijinsky. Molti concordano nel definire la sua condizione come schizofrenia paranoide, caratterizzata da episodi di delirio e allucinazioni. Ma alcuni teorici vedono in questa patologia anche una forma estrema di sensibilità creativa: una mente in continua tensione tra ordine e caos, razionalità e intuizione. L’isolamento imposto dalla malattia – e aggravato dalla separazione dai luoghi e dalle persone amate – ha amplificato il senso di alienazione di Nijinsky. Privato del suo strumento espressivo, il corpo danzante, il suo mondo interiore si fece sempre più fragile e tormentato. Nonostante fosse impossibilitato a danzare, Nijinsky continuò a immaginare e a “pensare” la danza attraverso schizzi e appunti, quasi come un rifugio mentale. Purtroppo, l’arte, che fino a quel momento era stata la sua forza e la sua salvezza, non poté curare la sua psiche. La storia di Nijinsky ci insegna che il genio artistico non è mai separato dalla sofferenza umana. Il corpo e la mente dell’artista sono intimamente intrecciati, e il loro equilibrio è fragile. La sfida per la danza contemporanea è trovare modi di espressione che rispettino questa complessità, senza idealizzare o romantizzare la malattia.

Il mito nell’immaginario collettivo: Nijinsky oltre la danza
Con il passare degli anni, la figura di Vaslav Nijinsky si è trasformata da artista rivoluzionario a icona culturale globale. Non più solo danzatore o coreografo, ma simbolo universale del talento che sfida i confini della normalità. Artisti come Pablo Picasso e Marc Chagall lo hanno ritratto, catturandone l’energia irrequieta e la tensione emotiva. La sua immagine è diventata fonte di ispirazione per pittori, fotografi e scultori, che ne hanno cercato di tradurre l’essenza sfuggente. La vita tormentata di Nijinsky ha ispirato romanzi, poesie e film che ne hanno esplorato gli aspetti più umani e misteriosi. Il racconto del suo genio e della sua caduta ha assunto spesso toni tragici, facendo emergere il lato più vulnerabile dell’artista. Per molti nella comunità LGBT+, Nijinsky rappresenta una figura di coraggio e complessità. La sua storia d’amore con Diaghilev, le difficoltà personali e il rifiuto sociale sono viste come un riflesso delle sfide vissute da tante persone queer. La persistenza del mito Nijinsky indica quanto sia forte il desiderio collettivo di riconoscere nelle figure artistiche un modello di autenticità, coraggio e sofferenza. Nijinsky non è solo un nome nel libro mondiale della danza, ma un archetipo che continua a risuonare.

Conclusione: il lascito eterno di Vaslav Nijinsky
Vaslav Nijinsky ha danzato non solo sul palco, ma anche nelle pieghe della storia, della psiche e dell’arte stessa. La sua breve ma intensa carriera ha cambiato per sempre il modo in cui il corpo può esprimere emozioni, idee e conflitti. Non è stato solo un ballerino, ma un visionario che ha osato rompere le regole, piegare la tradizione e dare voce all’invisibile. La sua vita, segnata dall’amore, dal tradimento, dalla malattia e dall’isolamento, è un monito sulle fragilità che spesso accompagnano il talento estremo. Il suo percorso ci insegna a guardare la creatività non come qualcosa di separato dall’umano, ma come un intreccio di luce e ombra, forza e vulnerabilità. L’influenza di Nijinsky si estende ben oltre la danza classica o moderna: è un richiamo per ogni forma d’arte che vuole indagare la complessità dell’essere. Il suo corpo, il suo gesto e la sua storia continuano a vivere in chiunque voglia spingersi oltre i limiti convenzionali, per cercare nuove forme di verità e bellezza. Forse il più grande dono di Nijinsky è stato il silenzio: quel silenzio che segue il gesto, che lascia uno spazio per l’interpretazione, che invita a riflettere. Un silenzio che è ancora oggi un invito a danzare con il mistero della vita, con la passione e il dolore, con la luce e l’ombra

Michele Olivieri

Foto di Ferdinando De Sarro

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

Check Also

Il valzer dei fiocchi di neve: grande danza+grande musica

Nello Schiaccianoci, il valzer dei fiocchi di neve non è solo una scena di danza: ...

La prima ballerina Silvia Azzoni “allo specchio”

Il balletto classico preferito? La Bayadère. Il balletto contemporaneo prediletto? Isadora now di Joy Alpuerto ...

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. E maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi