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4 visioni della follia in Giselle: Fracci, Guillem, Zakharova, Nuñez

Carla Fracci – La follia come poesia che si sgretola
Carla Fracci ha trasformato Giselle in un simbolo nazionale del lirismo romantico. Nella sua scena della pazzia, il gesto non si rompe mai completamente: si affievolisce.
 La sua follia non è un’esplosione ma un progressivo spegnersi della luce. Tutto avviene con una delicatezza quasi soprannaturale: le braccia tremano come foglie, gli occhi non cercano lo shock ma la tenerezza violata. Fracci non “impazzisce”: si dissolve. 
È una follia poetica, pudica, più vicina alla malinconia che al delirio. 
Chi la guarda non prova sgomento, ma una compassione profonda.

Sylvie Guillem – La follia come rottura fisica e mentale
Sylvie Guillem porta nella scena della pazzia un’energia modernissima. Il suo corpo, ipertecnico e flessibile, diventa materiale drammatico.
La sua Giselle è un essere che si spezza in diretta. Il gesto, per lei, è una traiettoria che deraglia: passi sbilanciati, braccia che scattano improvvisamente, sguardo perso in una lucida irrealtà. La follia di Guillem è una crisi nervosa pura, priva di sentimentalismi. È spigolosa, durissima, disturbante.
 Nessuno, prima di lei, aveva osato una verità psicologica così cruda dentro un balletto classico.

Svetlana Zakharova – La follia come eleganza tradita
Zakharova affronta la scena in modo opposto a Guillem: non rompe la forma, la raffredda.
 Pur mantenendo un’eleganza quasi irreale, lascia trasparire un vuoto interiore divorante.
 La sua Giselle sembra ancora una principessa della danza, ma il volto è spento, estraniato, gli occhi non “vedono”. La caratteristica della sua interpretazione è la distillazione: ogni gesto è controllato, ogni linea è perfetta, ma l’anima è assente. La sua follia è gelida, priva di ogni accesso emotivo diretto. È come osservare una farfalla morire in silenzio: bellissima e terribile allo stesso tempo.

Marianela Nuñez – La follia come cuore infranto
Nuñez unisce tecnica adamantina ed espressività empatica come poche.
 La sua scena della pazzia è struggente perché profondamente umana.
 Non c’è né la poesia eterea di Fracci né la devastazione di Guillem, né il gelo nobile di Zakharova: c’è una giovane donna distrutta dal dolore. Il suo movimento resta controllato, ma è come se il controllo fosse un ultimo gesto di dignità prima del crollo. 
Si percepisce la lotta interna: vuole mantenere compostezza, non può farlo. La sua follia avanza in ondate di incredulità, dolore e improvvise tenerezze ripetute verso Albrecht. 
È la versione più emotivamente riconoscibile, più vicina allo spettatore contemporaneo.

Michele Olivieri

Foto di Nadya Pyastolova

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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