
Aprire la stagione di Balletto 2025/2026 del Teatro alla Scala con La Bella Addormentata nel bosco nella versione di Rudolf Nureyev significa ribadire una concezione alta e non ornamentale del repertorio classico. La Bella nureyeviana, creata nel 1989 per l’Opéra di Parigi, resta una delle versioni più complesse e intellettualmente strutturate del capolavoro di Petipa e Čajkovskij: un balletto che chiede non solo brillantezza tecnica, ma una profonda consapevolezza stilistica e drammaturgica.
Il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala, diretto da Frédéric Olivieri, dimostra di possedere tutti gli strumenti necessari per affrontare questa sfida, restituendo una lettura solida, coerente e complessivamente convincente. La versione di Nureyev si fonda su una fedeltà rigorosa alla struttura petipaiana, ma ne riorganizza i pesi interni.
Il principe Désiré diventa centro narrativo e simbolico del balletto; la Fata dei Lillà assume il ruolo di figura regolatrice del tempo e del destino; il Corpo di Ballo si trasforma in una vera forza drammaturgica. La scrittura coreografica si fa più densa, le transizioni più elaborate, la richiesta tecnica più stringente.
La ripresa scaligera, curata da Laurent Novis con attenzione meticolosa e profonda conoscenza dello stile, contribuisce in modo decisivo alla fedeltà e alla solidità della ripresa coreografica. L’équipe legata all’eredità nureyeviana, rispetta pienamente la complessità, evitando semplificazioni e mantenendo intatta la stratificazione del testo coreografico. Al fianco di Novis troviamo Sabrina Mallem con un intervento puntuale e rispettoso dello stile che assicura continuità e chiarezza alla ripresa coreografica. Béatrice Martel cura con sensibilità filologica il fraseggio e le dinamiche, preservando l’eleganza della scrittura di Nureyev. Lionel Delanoë si adopera per un lavoro rigoroso e musicale, fondamentale nel restituire coesione e precisione all’impianto coreografico.
Laura Contardi, Lara Montanaro, Massimo Murru e Antonino Sutera: nel loro lavoro congiunto emerge una guida attenta e stratificata del Corpo di Ballo, capace di coniugare rigore stilistico, precisione accademica e consapevolezza musicale, elementi indispensabili per restituire l’articolata architettura coreografica e drammaturgica.
Al direttore del Corpo di Ballo Frédéric Olivieri è indirizzato un grande elogio: la sua visione artistica e guida prestigiosa hanno saputo valorizzare l’identità della Compagnia, sostenendo con intelligenza e continuità una ripresa di altissimo livello nel segno di Rudolf Nureyev e del Piermarini.
Il Prologo, momento fondativo dell’intero balletto, è uno dei banchi di prova più delicati. Le sette fate – Agnese Di Clemente, Gaia Andreanò, Asia Matteazzi, Caterina Bianchi, Camilla Cerulli, Martina Valentini e Maria Celeste Losa – offrono un quadro di insieme stilisticamente omogeneo e ben articolato. Nella versione di Nureyev, queste variazioni non sono semplici esercizi di bravura, ma veri ritratti coreografici, ciascuno con una propria qualità dinamica e musicale. Particolarmente apprezzabile è la chiarezza del fraseggio, l’attenzione al dettaglio dell’epaulement e la capacità di evitare qualsiasi eccesso decorativo. Gaia Andreanò, chiamata anche a momenti di particolare rilievo nel corso della serata, si distingue per precisione, ma l’impressione generale è quella di un Prologo costruito coralmente, in cui nessuna individualità rompe l’equilibrio dell’insieme.
I cavalieri – Domenico Di Cristo, Alessandro Paoloni, Frank Aduca, Alessandro Francesconi, Emanuele Cazzato, Andrea Crescenzi e Darius Gramada – accompagnano le fate con affidabilità tecnica e senso dello stile, contribuendo a un disegno complessivo pulito e leggibile.
Nicoletta Manni si conferma interprete di riferimento per il ruolo di Aurora. Il celebre Adagio della Rosa è affrontato con sicurezza e naturalezza, senza compiacimenti virtuosistici, ma con una gestione del tempo musicale che rivela piena maturità artistica. Il lavoro di piedi è netto, le linee sostenute, l’uso dell’epaulement sempre funzionale alla costruzione del personaggio. Nel corso del balletto, Manni edifica un arco coerente: dalla freschezza del Primo Atto alla sospensione quasi astratta del sonno, fino alla regalità consapevole dell’Atto III, restituendo un’Aurora che non è solo figura fiabesca, ma vero centro simbolico dell’opera.
Timofej Andrijashenko interpreta il principe Désiré con presenza scenica solida e tecnica affidabile, aderendo pienamente alla visione nureyeviana del ruolo. La variazione dell’Atto II, uno dei passaggi più impegnativi dell’intero balletto, è affrontata con brillantezza e chiarezza, mettendo in luce qualità del salto e musicalità. Nel rapporto con Aurora, Andrijashenko si conferma partner attento e autorevole. Il passo a due del risveglio e quello conclusivo risultano ben calibrati, fluidi e coerenti sul piano drammaturgico.
Chiara Borgia, come Fata dei Lillà, offre un’interpretazione sobria, priva di accenti sentimentali e perfettamente allineata alla funzione regolatrice che Nureyev assegna al personaggio. Marco Messina è un Catalabutte teatralmente efficace, mentre Gabriele Corrado e Azzurra Esposito delineano con misura e correttezza stilistica i ruoli di Re Florestano XXIV e della Regina. La Contessa di Vittoria Valerio è una presenza elegante e competente che contribuisce con raffinata misura a delineare il fasto aristocratico della corte. Il Duca Massimo Garon è una figura nobile e composta che aggiunge solenne equilibrio all’architettura scenica del balletto. Francesca Podini dà vita a una Carabosse magnetica e inquietante, scolpita con precisione: ogni gesto è carico di tensione drammatica e la sua presenza scenica, potente e controllata, domina il palco trasformando il personaggio in un autentico motore teatrale.
L’Atto I, spesso sottovalutato nella sua funzione narrativa, trova qui una buona tenuta teatrale. Le Amiche della Principessa – Gaia Andreanò, Caterina Bianchi, Camilla Cerulli, Agnese Di Clemente, Linda Giubelli, Martina Marin, Asia Matteazzi, Martina Valentini – contribuiscono a delineare un contesto di corte vivace ma controllato, con una danza di insieme ordinata e musicalmente curata. I Quattro Principi – Marco Agostino, Massimo Garon, Christian Fagetti, Edoardo Caporaletti – affrontano con correttezza le rispettive variazioni, mantenendo un profilo formale adeguato al contesto. Nel Terzo Atto, i divertissements acquistano pieno valore teatrale. Il Passo a cinque, interpretato da Maria Celeste Losa, Mattia Semperboni, Gaia Andreanò, Caterina Bianchi, Martina Marin, si distingue per equilibrio e chiarezza del disegno.
Particolarmente riusciti anche i quadri fiabeschi: Federico Fresi e Denise Gazzo nel Gatto con gli Stivali e Gatta Bianca, brillanti e musicali; Darius Gramada come Uccello Blu, tecnicamente sicuro e scenicamente incisivo; Linda Giubelli come Principessa Fiorina, elegante e ben fraseggiata. In questi momenti emerge la qualità complessiva del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala, capace di mantenere coerenza stilistica anche nella varietà dei registri.
L’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta dal maestro Kevin Rhodes, accompagna la danza con precisione e attenzione, privilegiando la chiarezza formale della partitura di Čajkovskij. Le scene e i costumi di Franca Squarciapino confermano la loro efficacia drammaturgica, mentre le luci di Andrea Giretti contribuiscono a definire gli spazi e i diversi piani simbolici del racconto.
Questa Bella Addormentata nel bosco si impone come un’apertura di stagione solida, coerente e culturalmente significativa. La qualità dei danzatori, la maturità degli interpreti principali e l’attenzione riservata anche ai ruoli di fianco e ai divertissements restituiscono un quadro complessivo di grande serietà artistica. Una produzione che non si limita a celebrare il grande repertorio, ma lo affronta come materia viva, esigente e ancora capace di parlare con forza al presente della danza classica.
Inaugurare con La Bella Addormentata nel bosco nella versione di Rudolf Nureyev non equivale a riproporre un titolo fondativo del repertorio, ma a riaffermare una precisa idea di classicità come pratica critica. Nella sua apparente adesione alla tradizione, questa versione si colloca infatti in una zona di tensione: là dove la forma non è più semplice eredità, ma strumento di interrogazione del linguaggio stesso del balletto. La rilettura di Nureyev rappresenta uno dei punti più alti della riflessione novecentesca sulla grammatica accademica. Non una ricostruzione, non una citazione colta, bensì una riscrittura interna, che assume l’eredità di Petipa come sistema chiuso da rendere nuovamente necessario. In questo senso, la filologia praticata da Nureyev non è conservativa, ma attiva: non si limita a preservare la forma, la costringe a parlare.
Nel balletto di Petipa e Čajkovskij la perfezione formale non è un esito, ma un presupposto. Tutto è costruito secondo un principio di equilibrio: tra danza e musica, tra gesto e spazio, tra individuo e collettivo. Nureyev accoglie integralmente questa struttura, ma ne espone il carattere artificiale, portandone alla luce la natura di dispositivo. La forma diventa così un campo di forze, non un ideale pacificato. La scrittura coreografica si densifica, le transizioni si caricano di significato, la virtuosità perde ogni carattere ornamentale per farsi necessità strutturale. La danza non illustra, ma costruisce senso attraverso la reiterazione, la simmetria, l’eccesso controllato.
È in questa esasperazione del classico che la Bella di Nureyev rivela il proprio volto moderno. Uno degli assi portanti della versione nureyeviana è la riflessione sul tempo. Non il tempo narrativo della fiaba, ma un tempo altro, sospeso, rituale. Il lungo sonno che attraversa il balletto non è un semplice espediente drammaturgico, bensì una condizione strutturale: il tempo si contrae, si dilata, si organizza in cicli. La scena diventa spazio di soglia, luogo di passaggio più che di azione. In questa prospettiva, l’opera si configura come un racconto iniziatico, in cui la progressione non è data dall’accadere degli eventi, ma dall’attraversamento della forma.
Elemento centrale in Nureyev è la concezione del Corpo di ballo come architettura simbolica. Le masse danzanti non accompagnano l’azione: la determinano. Attraverso una gestione rigorosa delle simmetrie, delle diagonali e dei pieni e dei vuoti, la coreografia costruisce un sistema di relazioni che sostituisce la narrazione tradizionale. Il Corpo di ballo diventa così il luogo in cui la forma si rende visibile come pensiero. Non esiste gesto che non sia inscritto in un disegno più ampio; non esiste individualità che non sia misurata sul collettivo. È questa concezione strutturale della danza a rendere la Bella di Nureyev un’opera di estrema esigenza, tanto sul piano tecnico quanto su quello intellettuale.
Riproporre oggi questo titolo di Nureyev implica assumersi una responsabilità che va oltre la restituzione corretta del testo coreografico. Significa riconoscere che il balletto classico, per sopravvivere, deve essere trattato come un linguaggio ad alta definizione, che non ammette approssimazioni né riduzioni. Ogni elemento — spazio, tempo, gesto, relazione — è parte di un sistema interdipendente. In questo senso, la ripresa scaligera si inscrive in una linea di continuità che considera il repertorio non come bene da esibire, ma come forma da abitare criticamente. Il classico non è ciò che rassicura, ma ciò che resiste.
La dedica della serata inaugurale a Giorgio Armani (con la mostra fotografica a lui in omaggio allestita presso il Ridotto dei Palchi) introduce un ulteriore livello di lettura, senza bisogno di esplicite sovrapposizioni simboliche. Come nell’estetica di Armani, anche nella Bella di Nureyev la classicità non è nostalgia, ma disciplina; non ornamento, ma controllo; non citazione, ma costruzione di uno stile che trova nella misura il proprio principio etico prima ancora che formale.
La Bella Addormentata emerge così come paradigma di una classicità vigile, che non si sottrae al tempo presente ma lo attraversa, opponendo alla dispersione una forma rigorosa e consapevole. La produzione del Teatro alla Scala, riproposta per l’inaugurazione della stagione nella serata di Giovedì 18 dicembre 2025, si afferma come un’opera che non chiede di essere contemplata, ma compresa. Un classico che non si limita a esistere, ma che esige di essere pensato. In questa tensione tra rigore e rischio, tra forma e interrogazione, risiede la sua persistente necessità. In tale contesto, la Scala riafferma il proprio ruolo di istituzione culturale chiamata non solo a custodire la tradizione, ma a renderla nuovamente necessaria.
Alla conclusione della serata, i prolungati applausi e il consenso unanime del pubblico, in particolare alla coppia Manni-Andrijashenko hanno sancito non soltanto il successo dello spettacolo, ma il riconoscimento condiviso di un’interpretazione del grande repertorio capace di coniugare rigore filologico, austerità istituzionale e piena adesione al significato culturale dell’inaugurazione scaligera.
Michele Olivieri
Foto di Brescia e Amisano © Teatro alla Scala
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