Una miscellanea di composizioni coreografiche, sicuramente unite dall’obiettivo fondamentale di omaggiare il mistero della comunicazione corporea, ma sfortunatamente poco concatenate tra loro sotto il profilo scenico e tecnico. Questa l’immagine de Il corpo sussurrando, spettacolo performato dal Balletto Teatro di Torino, andato in scena lo scorso 1 dicembre al Teatro Duse di Bologna in sostituzione di In Chopin.
Il sipario si apre con Chameleon, un assolo del coreografo israeliano Itzik Galili interpretato da Julia Rauch, la più interessante nonché maggiormente dotata ballerina dell’ensemble. È un dialogo con se stessa, fatto di emozioni, paure, interrogativi, malizie, allegria. È un inno alla femminilità dai toni marcatamente minimalisti, vista la sola sedia come accessorio e un occhio di bue come unica fonte di luce. Ma, nello stesso tempo, è come guardarsi allo specchio andando oltre le distinzioni di genere: siamo tutti un turbinio di emozioni che ci travolge quotidianamente ovunque decidiamo di essere, anzi – oserei dire – proprio perché decidiamo di essere.
Dopodiché, tre ulteriori rappresentazioni di quanto il corpo possa lanciare un messaggio ben più profondo della semplice apparenza: Chop in Love, Do You? e Aliento del Alma, tutte firmate da Marco De Alteriis. Una coppia di passi a due e una coreografia d’insieme in cui spicca, tanto a livello fisico quanto tecnico-interpretativo, Axier Iriarte, il cui corpo danzante fluido – anche solo nelle banali e fin troppo ripetitive camminate e corse per tutto il palcoscenico – suggerisce un tale senso di sinuosità da apparire quasi “parlante”, evocatore di memorie recondite, inconsce, delicatamente “sussurrate” – per citare ancora una volta il titolo dello spettacolo – all’animo del pubblico.
Dopo un breve intervallo per “digerire” cotante vibranti emozioni, discernendo la qualità performativa degli interpreti dall’impressione di una mancata perseveranza delle prove in sala, è ancora un’opera di Galili ad animare l’azione scenica: Fragile, eseguita dalla coppia d’eccellenza della serata, Rauch/Iriarte. Il costume nude, l’atmosfera calda, la musica di Gavin Bryars e la deliberata scelta di sviluppare l’intera coreografia in verticale, ponendo il danzatore spagnolo sempre di spalle al pubblico, intensificano quell’aura fascinosa che incornicia il linguaggio del corpo, perpetuando il fil rouge interpretativo dell’occasione. La ballerina indossa un paio di scarpette da punta quasi ininfluenti nella dinamica dei passaggi coreografici, eppure sono anch’esse indizio di una mutevolezza che lascia sempre sorpresi, incollati con lo sguardo al “disegno” senza sbavature che il corpo spennella nell’aria.
Dulcis in fundo, l’ultima creazione del coreografo spagnolo Jose Reches, presentata a Bologna in prima assoluta: I don’t care. La musica dei Plasticman irrompe in palcoscenico, così come i cinque danzatori che, correndo alla rinfusa, saltando gli uni sugli altri, intervallando a prese ben poco riuscite sequenze coreografiche decisamente scoordinate, suggeriscono perfettamente un senso di instabilità corporea che, a onor del vero, appartiene a chiunque. Tuttavia, il tentativo di resa scenica non è dei più congeniali, soprattutto nella scelta di concludere la performance (e, di conseguenza, lo spettacolo per intero) con un “saluto” dei danzatori al margine del proscenio, preceduto da una poco convincente session di improvvisazione.
Marco Argentina
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Itzik Galili / Chameleon © Roberto Poli
Itzik Galili / Fragile © Roberto Poli