Fabrizio Monteverde inizia la propria attività artistica nel 1976 come attore e aiuto regista di Muzzi Loffredo nello spettacolo “Un giorno Lucifero” presentato al Festival di Spoleto e al Piccolo Teatro di Milano. Parallelamente al lavoro in teatro inizia a studiare danza presso il Centro Professionale Danza Contemporanea di Roma, perfezionandosi in seguito con maestri come Carolyn Carlson, Moses Pendleton, Alan Sener, Bruno Dizien, Roberta Garrison, Peter Goss e Daniel Lewis. Lavora con G. Cobelli nell’“Orfeo” di Sartorio, con P. Pieralli in “Giulia round Giulia” su musiche di S. Bussotti per il Festival di Avignone, con A. Rostagno in “Corpus Alienum” di B. Maderna al Maggio Musicale Fiorentino. Nel 1982 danza nella Compagnia Teatrodanza Contemporanea di Roma diretta da Elsa Piperno e Joseph Fontano. Nel 1984 si trasferisce a Parigi dove perfeziona gli studi di danza contemporanea. Tornato a Roma nel 1985, allestisce su commissione del Teatro Spazio Zero di Roma lo spettacolo “Bagni Acerbi” che lo colloca subito tra i nuovi nomi della coreografia italiana. Da questa esperienza nasce la Compagnia Baltica di cui è direttore fino al 1992. Nel 1988 inizia la collaborazione con il Balletto di Toscana diretto da Cristina Bozzolini; per la compagnia crea il brano “Era Eterna” su musiche di F. Schubert e riallestisce la sua prima creazione “Bene Mobile”. Inizia così un rapporto di solidarietà artistica ed intensa attività produttiva che durerà, ininterrotto, fino alla cessazione dell’attività del BdT nel 2000. Tra le creazioni di questi anni “Giulietta e Romeo” (1989), “Pinocchio” (1991), “Dedica” (1994), “Otello” (1994), “La Tempesta” (1996), “Barbablù” (1999). Nel 1991 è coreografo de “La Luna Incantata”, film per la Rai con la regia di Vittorio Nevano e protagonista l’étoile Alessandra Ferri. L’opera ottiene la Palma d’Oro al Festival Audiovisivi di Cannes. Nel 1989 debutta nella regia teatrale con “Tre Sorelle” di Anton Cechov e si ripete nel 1997 con “Otello” di Giuseppe Verdi per il Teatro Pergolesi di Jesi. Nel 1996 ottiene il premio “Gino Tani” e il premio “Danza&Danza” quale migliore coreografo italiano. Densa, negli anni, l’attività con le più importanti compagnie di danza come MaggioDanza, Compagnia del Teatro San Carlo di Napoli, Arena di Verona, Teatro Carlo Felice di Genova, Teatro Regio di Torino, Teatro dell’Opera di Roma, Scala di Milano. Per il Balletto di Roma ha realizzato i balletti a serata intera “Giulietta e Romeo”, “Cenerentola”, “Otello”, “Bolero”, “Il lago dei cigni, ovvero Il Canto”. Dal 2015 è coreografo associato della compagnia del “Balletto di Roma”.
Gentile signor Monteverde, a pochi giorni dal debutto di “Giulietta e Romeo” al Quirino di Roma, mi racconta come si è accostato a Shakespeare nella storia d’amore per eccellenza e quale “lettura” ha infuso nel portare in scena il dramma?
Questa mia coreografia risale al 1989, ed è la prima creazione a serata del Balletto di Toscana. Mi sono avvicinato ad essa con tutta l’incoscienza della giovinezza, ma anche con il profondo rispetto per il capolavoro shakespeariano, seguendone quindi, con cura, i passi salienti del dramma. L’unica licenza è stata quella di spostare la storia nel tempo e nei luoghi (ma del resto un capolavoro è tale proprio perché racconta qualcosa di universale e riconoscibile sempre e ovunque). La mia ambientazione si adatta nel Sud Italia durante il periodo del dopoguerra.
Nella presentazione di sala si legge che la sua è “una coreografia nervosa, scattante, senza fronzoli, ma nella quale le forze espressive della sua formazione modern si fondono in un legato continuo agli spunti e alle linee della danza neoaccademica”. In queste parole si riconosce esattamente?
Mi riconosco perfettamente. Per la prima volta avevo a disposizione un ensemble di danzatori straordinari con una formazione puramente accademica. Possedevo la musica di Prokofiev, così carica di emozioni e ricca di sfumature. Non ho fatto altro che mettermi a completa disposizione di questi elementi!
Perché ha cambiato il titolo posponendo “Romeo e Giulietta” in “Giulietta e Romeo”?
Causa di tutto ciò che accade è legato al femminile. Giulietta, in particolare, è la vera eroina del dramma!
Per un coreografo, qual è il maggior timore nell’accostarsi al riadattamento di un capolavoro, ben appunto come “Giulietta e Romeo” oppure “Il lago dei cigni” e “Cenerentola”?
Affronto i grandi classici sempre con assoluto rispetto e anche un poco di incoscienza. Li “utilizzo” per raccontare ciò che di più profondo hanno fatto scaturire nella mia mente, nelle mie memorie. Li “uso” per narrare me stesso.
Com’è nata in lei la vocazione verso la carriera teatrale ed in seguito verso quella coreutica?
Il teatro è arrivato nella mia vita per puro caso. La musicista e attrice Muzzi Loffredo stava cercando un ragazzo adatto ad interpretare suo figlio nello spettacolo “Un giorno Lucifero”, mi notò per la somiglianza che avevo con lei …e da lì è partita la mia avventura. La danza invece è giunta in maniera più subdola, frequentavo una scuola di danza solo per tenere in allenamento il fisico, ma sempre per il mio lavoro di attore. Lì ho scoperto dapprima di essere particolarmente dotato per questa disciplina, poi piano piano me ne sono innamorato, tanto da volere che diventasse il mezzo espressivo con cui raccontarmi.
Che tipo di esperienza ha vissuto all’interno del “Centro Professionale Danza Contemporanea” di Roma?
Sono ricordi lontanissimi! Ma posso affermare che in quel luogo magico, in via del Gesù a Roma, sono cresciuto rapidamente, principalmente come persona, ho conosciuto tanti ragazzi che come me cercavano qualcosa che li “riempisse”, ho incontrato Maestri nel vero senso della parola, ho trovato persone che avevano sogni e che mi hanno permesso di sognare. Ma ho anche appreso una tecnica, ho visto il mio corpo trasformarsi, ho capito che potevo farcela. Però ho anche compreso che dovevo farcela con le mie forze, uscire dalla gabbia di quella tecnica e provare a “ballare da solo”.
Mentre al Balletto di Toscana, che aria si respirava?
Qui i ricordi sono più recenti, anche se osservando la situazione della danza italiana ora, sembra che sia passato un secolo. Il Balletto di Toscana era la Compagnia più professionale e innovativa che esisteva nel panorama italiano in quel momento. Possedere carta bianca all’interno di questa realtà mi sembrava un sogno. Al suo interno sono cresciuto professionalmente, ho capito realmente che ce l’avevo fatta!
Cosa deve, in termini artistici, a Cristina Bozzolini?
Un po’ quello che dicevo prima: avere avuto fiducia in me, scommettere su un coreografo giovane affidandogli la sua compagnia è stato un atto di grande coraggio. Con Cristina ci siamo tanto amati, e come in tutte le storie d’amore abbiamo anche discusso ferocemente, ci siamo lasciati e ripresi. Ma la mia stima e riconoscenza nei suoi confronti sono sempre immutate; soprattutto osservando le figure, o figurine, che sono apparse negli ultimi tempi sulla scena nazionale!
Della sua carriera di danzatore, in quale ruolo si è rispecchiato particolarmente per empatia ed emozione?
La mia carriera è stata brevissima, sapevo da subito che non volevo fare il danzatore. Il mio carattere indipendente e la mia poca disciplina me l’hanno fatto comprendere fin dall’inizio. Ma ricordo un “Magnificat” coreografato da Marco Brega per “TeatroDanza” di Roma che mi regalò notevoli emozioni.
Come si è avvicinato, inizialmente, alla professione di coreografo?
Danzavo con la compagnia “TeatroDanza” di Roma e ricordo che i direttori (Elsa Piperno e Joseph Fontano) ci proposero di fare un laboratorio all’interno del quale chi voleva poteva realizzare una coreografia. Mi proposi subito e con la mia amica e collega Francesca Antonini realizzai il passo a due “Bene Mobile” ispirato al racconto “Poltrondamore” di Alberto Savinio. Questo venne rappresentato per la prima volta in una vecchia Biblioteca in via della Gatta a Roma. Ebbe un enorme successo e questo ha fatto sì che litigassi con i direttori della Compagnia e che mi si dessero molte possibilità di continuare sulla strada della coreografia.
Cosa ricorda del suo primo lavoro “Bagni Acerbi”? Com’era strutturato e ha mai pensato di riproporlo?
Dopo “Bene Mobile” ho avuto realmente numerose occasioni, ma tra queste la più interessante mi arrivò dal “Teatro Spazio Zero” di Roma. Mi dettero l’opportunità di realizzare uno spettacolo a serata da inserire nella programmazione. Realizzai “Bagni Acerbi”, un allestimento che metteva in scena quattro ragazzi adolescenti alla scoperta del sesso. Il tutto in maniera molto lieve, quasi da mini musical, ma dove l’urgenza del contatto, della sensualità e del bisogno impellente della scoperta dell’altro erano messi in primo piano. Mai pensato di riproporlo, essendo questo spettacolo strettamente legato a quei quattro amici, che l’hanno realizzato con me sulle loro personalità.
Verso quale repertorio si sente maggiormente incline?
Verso tutto ciò che mi accende, che stimola una reazione, che mi racconta qualcosa che giace nel profondo del mio essere.
Se dovesse condensare i momenti più emozionanti della sua carriera, quali menzionerebbe principalmente?
Le grandi emozioni sono legate più alla vita che al lavoro, più agli incontri che agli applausi. Non riesco a fare una graduatoria delle emozioni professionali.
Ha lavorato anche per la Scala di Milano! Una felice esperienza?
Ho lavorato in tutti gli Enti Lirici italiani, ogni volta con grande piacere e soddisfazione. Sempre con le stesse difficoltà dovute alla differenza che ci sono nel collaborare con una Compagnia privata e con un Ente (tempi, sindacati, organizzazione, burocrazia e regole).
Qual è il balletto di repertorio che predilige e perché?
L’atto bianco di “Giselle”. La fusione tra musica e danza è perfetta!
Come prepara solitamente una coreografia? Da dove trae spunto per le sue creazioni?
Parto ogni volta da uno stimolo narrativo. Procedo più da regista che da coreografo: devo, innanzitutto scrivere una sorta di canovaccio con la successione delle scene, appuntando anche idee per luci e scene. Tutto questo tenendo conto della partitura musicale, degli eventuali tagli o inserimenti di altri brani o effetti.
Quali sono stati i suoi maestri, non solo materiali ma anche ideali?
Non so rispondere a questa domanda. Molte persone mi hanno dato tanto, altre mi hanno tolto, ho visto spettacoli e film, ho letto libri che hanno cambiato il mio pensiero, altri che ho rapidamente dimenticato. Da tutti ho cercato di prendere un qualcosa che mi sembrava utile, e tutti hanno formato un mio personale pensiero.
Crede sia fondamentale per un coreografo aver avuto esperienza di danzatore?
Credo sia fondamentale sapere cosa sia la Danza. Questo fa la differenza tra coreografo e performer.
Com’è stato lavorare con l’étoile Alessandra Ferri?
Bellissima avventura coreografare “La Luna Incantata” per la RAI nelle splendide location della Sardegna. Un sorprendente doppio incontro: con un altro modo di lavorare e con la Danza fatta donna… Alessandra Ferri! Grande disponibilità, immensa artista! Mi sembrava un sogno poter essere al suo fianco ed ammirare il mio movimento interpretato dal suo corpo.
La musica come si combina con il lavoro del coreografo e in particolare con il Suo?
Come dicevo prima, per me lo stimolo iniziale è la storia, il racconto. La musica arriva successivamente. Nel caso di un rifacimento di un balletto di repertorio, la musica ha la funzione di una sorta di binario emozionale. Essendo essa stata scritta per “narrare” alcune situazioni o accadimenti, non posso fare a meno di analizzarla per poi riempirla inserendo il mio movimento e facendomi colmare dalla sua dinamica.
Attualmente è coreografo associato della compagnia del “Balletto di Roma”. Cosa rende speciale questa affermata realtà?
Credo che in questo momento il “Balletto di Roma” sia l’unica compagnia privata di danza in Italia, che fa realmente un lavoro di diffusione della danza.
Non solo coreografo ma anche regista di teatro. Di questo aspetto della sua professione cosa la entusiasma?
I due ruoli si sovrappongono. La mia formazione teatrale mi ha corrotto in tutto ciò che ho fatto in seguito. Della mia professione mi entusiasma il processo creativo, la sinergia che si crea attorno ad un’idea che piano piano si materializza.
Quali sono le sue letture preferite?
Varie e disordinate. Cocteau, Shakespeare, Genet… ma anche Ammanniti, Pennac. Spesso scelgo un libro non un autore.
Per concludere signor Monteverde, la cultura, l’arte, il teatro e la danza in senso lato, quale input dovrebbero trasmettere ai giovani?
Non saprei proprio mettere nero su bianco quale sia il compito dell’arte. So solamente che su di me ha avuto un effetto quasi terapeutico, mi ha donato sicurezza, ha fatto affiorare cose che risiedevano nel profondo del mio essere. Mi ha dato uno sguardo “strabico” il quale mi ha permesso di osservare da un’altra prospettiva tutto ciò che mi avvicinava.
Michele Olivieri
Foto: M. Carratoni
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