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«Io sono l’insieme di tutte le mie esperienze formative e memorie». Intervista a Fabrizio Monteverde

«Io sono l'insieme di tutte le mie esperienze formative e memorie». Intervista a Fabrizio Monteverde

 

Approcciatosi alla danza grazie al Centro Professionale Danza Contemporanea di Roma negli anni ’70, di pari passo a un emergente debutto nel mondo del teatro, Fabrizio Monteverde si forma nelle aule di grandi Maestri del calibro di Carolyn Carson, Moses Pendleton e Daniel Lewis – per citarne solo alcuni – passando, inoltre, per Parigi, in cui consegue una lezione di “scuola di vita” davvero indimenticabile. Al suo rientro in Italia, nel 1985, ha inizio la sua carriera da coreografo presso il Teatro Spazio Zero di Lisi e Silvana Natoli, col quale fa il suo “debutto in società” nella scena della danza contemporanea. Tra le numerose collaborazioni, datate fino ai nostri giorni, sicuramente da ricordare il Balletto di Toscana diretto da Cristina Bozzolini e il Balletto di Roma, del quale è coreografo associato dal 2015.

 

Il suo esordio nel mondo delle arti performative avviene in ambito teatrale (“Un giorno Lucifero” – 1976), esordio a cui parallelamente segue la formazione di danza presso il Centro Professionale Danza Contemporanea di Roma. Cosa l’ha spinto ad abbracciare quest’ulteriore arte scenica?

Il mio primo approccio al mondo della danza è avvenuto prima di tutto per un’esigenza: in quegli anni “fare teatro” significava anche utilizzare il corpo, oltre alla voce. L’attore doveva essere un artista a tutto tondo, il più completo possibile. Questo ha fatto sì che incontrassi questa disciplina, dapprima, dunque, solo per affinare quello che pensavo dovesse essere il lavoro della mia vita, ma che poi è diventato, fagocitandomi, l’unica forma espressiva che mi sembrava ancora interessante esplorare.

Ha  avuto l’opportunità di studiare con maestri di fama internazionale del calibro di Carolyn Carson, Moses Pendleton, Peter Goss, Daniel Lewis e molti altri ancora. Da quale di essi – se è possibile indicarne uno in particolare – ha tratto maggiore ispirazione per creare la sua danza?

Mi verrebbe da dire da nessuno in particolare. O da tutti. Io sono l’insieme di tutte le esperienze e di tutte le memorie del mio percorso formativo.

Pochi anni dopo, nel 1982, danza all’interno della Compagnia Teatrodanza Contemporanea di Roma, diretta da Elsa Piperno e Joseph Fontano. Come ha vissuto quest’esperienza?

Sono passati così tanti anni che – devo essere sincero – il ricordo di quell’esperienza mi risulta a tutt’oggi un po’ sfocato. Probabilmente anche perché la carriera da ballerino non mi si cuciva perfettamente addosso: sono sempre stato una persona indisciplinata e istintiva. E, sotto un certo punto di vista, questo temperamento ha giovato moltissimo alla mia carriera professionale, perché, infatti, grazie a uno “scontro” avuto con la direzione e  la conseguente fuga dalla Compagnia si è materializzato il mio futuro come coreografo.

Il 1984 è l’anno del suo trasferimento a Parigi per perfezionarsi nella danza contemporanea. Con chi ha studiato e come mai ha deciso di ritornare in Italia?

Parigi è stata soprattutto una scuola di vita. La mia permanenza, dunque, è stata una sfida alla sopravvivenza, in cui mi sono messo fortemente alla prova – devo ammetterlo. Per guadagnare il denaro per studiare e vivere, infatti, non mi sono risparmiato nel vivere le esperienze più disparate, come ballare in piazza, servire ai tavoli come cameriere, accudire bambini come baby sitter, ecc. D’altro canto, questi sacrifici non sono stati ben ripagati dall’insegnamento dei molti maestri di danza conosciuti. Ma ciononostante posso dire a tutt’oggi che quell’esperienza resterà per me indimenticabile, dato che, al suo termine, sono tornato in Italia più forte e adulto.

Un anno dopo, nel 1985, il suo nome viene pienamente riconosciuto nella giovane scena della danza contemporanea grazie allo spettacolo “Bagni Acerbi”, commissionatogli dal Teatro Spazio Zero di Roma. Com’è stato – da un punto di vista emotivo – questo “debutto in società”?

Il migliore che potessi avere! Devo tantissimo ai direttori dell’epoca di questo straordinario luogo di ricerca che era presente a Roma: Lisi e Silvana Natoli. Il nostro primo incontro artistico coinvolse la mia coreografia di “debutto” – per mantenere la metafora – ovvero il passo a due Bene Mobile, il quale fu ospitato proprio in una loro rassegna. Subito dopo fu il turno di Bagni Acerbi, una coreografia a serata intera che proposero di produrmi. Non le nego che mi sembrò di sognare… Poi tutto avvenne in maniera consequenziale e vissuta con l’incoscienza della gioventù.

Alla fine degli anni ’80 (1988) ha inizio la collaborazione con il Balletto di Toscana, diretto da Cristina Bozzolini, con il quale nascerà un sodalizio artistico assai consolidato, naturalmente fino alla cessazione della compagnia nel 2000. Com’è stato lavorare con uno degli ensemble più famosi e virtuosi della scena coreutica italiana?

Questa è stata la vera svolta della mia vita! Grazie a Cristina Bozzolini e alla sua fantastica e – ahimè – irripetibile Compagnia ho appreso il vero lavoro del coreografo che ha a che fare con un ensemble di grandi professionisti e di veri artisti. Grazie a loro sono passato da coreografo sperimentale di un piccolo gruppo a coreografo della principale e innovativa Compagnia italiana.

Nel 1991 lei coreografa “La Luna Incantata”, film per la Rai TV con l’étoile protagonista Alessandra Ferri, accompagnata dai danzatori del BdT. L’opera vince la Palma d’Oro al Festival Audiovisivi di Cannes. Che emozione ha provato al riconoscimento di un tale prezioso Premio?

I premi non mi hanno mai emozionato particolarmente. La vera emozione è stata poter partecipare a questo film. A tutt’oggi ho ricordi straordinari di Alessandra Ferri, dei luoghi magici della Sardegna, della danza che attraverso la telecamera si trasforma e vive in maniera completamente differente dal Teatro.

Nel 1996, invece, viene premiato personalmente, sia col premio “Gino Tani” sia con quello “Danza&Danza”, quale miglior coreografo italiano. Quale dei due sente che abbia reso maggiore onore alla sua carriera?

Vale la risposta di prima. Il premio che preferisco consiste nel vedere il pubblico ricevere un’emozione assistendo a un mio spettacolo. Anzi devo fare una confessione: tutti i premi ricevuti (in genere mostruose sculturine o targhette in similargento) riposano in pace in qualche cassonetto…

Innumerevoli le compagnie, i teatri e gli Enti italiani coi quali ha collaborato fino ad oggi: MaggioDanza, Teatro San Carlo di Napoli, Arena di Verona, Teatro Regio di Torino, Teatro alla Scala, Teatro Massimo di Palermo, solo per citarne alcuni. Con quale di essi si è sentito maggiormente gratificato nella realizzazione e nella messinscena delle sue creazioni?

Non è mai facile lavorare in un Ente Lirico italiano: ci sono regole e tempistiche da rispettare completamente differenti da quelle di una Compagnia privata. Ma nella mia esperienza all’interno di tutte le istituzioni sopracitate è esistito un comune denominatore: ho sempre cercato di portare in maniera onesta il mio lavoro e di instaurare un rapporto collaborativo con i danzatori. Se dovessi, comunque, indicare un ricordo più prezioso e intenso di certo sarebbe la creazione de La Tempesta per l’Arena di Verona.

Infine, guardando al presente, è necessario citare la sua nomina a coreografo associato dal 2015 per il Balletto di Roma, per il quale ha realizzato cinque balletti a serata intera, quali “Giulietta e Romeo”, “Otello”, “Bolero”, “Cenerentola” e “Il lago dei cigni, ovvero il Canto”. Un marcato sguardo al Passato e alla tradizione: per un desiderio di revival o di rivoluzione?                          

Ho sempre rivolto il mio sguardo artistico al Passato. Ritengo che nella memoria c’è la vera Essenza, la Verità e la Rivoluzione. Più che mai in questi anni, in cui performer onanistici spacciano performance approssimative e onanistiche, definendole Danza. La vera novità sta nella professionalità e nella Storia, a mio modesto avviso.

Marco Argentina

www.giornaledelladanza.com

 

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