Fredy Franzutti uno dei più noti coreografi nel panorama nazionale, fonda nel 1995 il “Balletto del Sud”, compagnia che dirige e per la quale ha creato un repertorio di 34 spettacoli. Realizza inoltre balletti per diversi teatri internazionali fra cui il Bolshoi di Mosca, il Teatro dell’Opera di Roma, l’Opera di Montecarlo, l’Opera di Magdeburg, Sophia e Tirana, per diversi enti lirici italiani e per trasmissioni Rai. Ricostruisce balletti perduti sotto la guida di Beppe Menegatti. Cura le danze di opera di produzioni realizzate in Francia, Spagna, Russia e numerose in Italia, a fianco di registi come Pier Luigi Pizzi, Mauro Bolognini, Beppe De Tomasi, Flavio Trevisan. Ha realizzato coreografie per étoiles internazionali come Carla Fracci, Lindsay Kemp, Luciana Savignano, Alessandro Molin, Xiomara Reyes, Vladimir Vassiliev. Partecipa, su invito di Vittoria Ottolenghi, a diverse edizioni delle Maratone internazionali di danza e realizza per Vittoria Cappelli numerosi eventi. All’attività di coreografo affianca quella di autore, regista, scenografo e costumista, dirigendo opere liriche e di prosa e ideando diversi spettacoli, anche con voce e danza, collaborando con Ugo Pagliai, Giorgio Albertazzi, Arnoldo Foà, Franco Battiato, Lorin Maazel, Francesco Libetta.
Caro Fredy, chi ti ha indirizzato verso la danza e come è nata questa forte passione in te?
È stato un po’ per caso. Ho visto uno spettacolo di danza, mi è piaciuto immaginarmi sul palco a danzare. Ho la stessa passione per diverse discipline dello spettacolo, e dell’arte in genere. La danza è il linguaggio che ho scelto per esprimermi.
Parlami del coreografo Jeoffrey Couley, figura importante nel tuo percorso artistico…
Jeoffrey – da poco scomparso – è stato il mio principale maestro per la coreografia, nel senso più architettonico del termine. Sono stato suo assistente in grandi produzioni con Galina Samsova e ho seguito delle sue lezioni su come combinare le legazioni. Lui è stato allievo di Stanley Williams e mi ha insegnato tanto di quella tecnica e di quel fantastico mondo “so english”. Qualcuno mi ha definito “coreografo di scuola inglese” (Nicola Sbisà – La Gazzetta del Mezzogiorno) e anche recentemente ho avuto approvazioni da importanti teatri oltre la manica. Jeoffrey Couley è stata una grande risorsa che abbiamo avuto in Italia, ma non abbiamo saputo approfittarne. Dopo una straordinaria carriera, negli ultimi anni era stato dimenticato. Era nato nelle Bermuda, vestiva di bianco da maggio a settembre e di nero da ottobre ad aprile, molto chic. Forse anche io potevo fare qualcosa, me ne pento, sono molto dispiaciuto. Comunque lo ringrazio di cuore. Un grande che ci ha lasciato. “Maestro perché interrompiamo la prova?” “Perché qui Mozart è davvero Mozart e noi siamo troppo sudati per stare al suo cospetto”… Questo era Jeoffrey!
Quanto ti è stato utile l’amore per la cultura, per il bello, per l’arte nel far fiorire la tua creatività e il tuo linguaggio stilistico?
È naturale che non si può fare cultura senza essere colti. Se la danza è un’arte della comunicazione come possiamo comunicare se non abbiamo nulla di interessante da dire. E l’interesse è dato dai contenuti che solo la cultura possiede. Il bello è un concetto soggettivo e mutevole. Si potrà discutere sul bello e sul brutto all’infinito. Troveremo sostenitori della simmetria e fautori dell’asimmetrico. L’importante è che le decisioni di natura estetica non siano scaturite da idee pregresse: ideologia politica, senso di appartenenza ad un gruppo, convinzioni, moda.
Attualmente verso quale repertorio ti senti maggiormente incline?
Ho rielaborato i classici del balletto quando ero molto giovane, creando spettacoli riconosciuti di successo e ancora in tournée. Ora prediligo la sollecitazione mentale e la proposta del nuovo. L’interazione tra la parola e la danza. Il soggetto che proviene dal testo. La musica del Novecento. L’estetica futurista. La tragedia come pertinenza della Magna Grecia in cui vivo. Il rapporto tra il meridione d’Italia e le grandi influenze della cultura europea.
Ogni coreografo ha una propria metodologia, tu come ti poni durante la preparazione di una creazione?
Mi muovo in maniera istintuale. La creatività non ha percorsi. Il percorso non ha regole. Si è comunque soli. L’idea ti porta all’infinito nella ricerca della realizzazione della stessa. Poi lo spettacolo, inteso come prodotto, o come risultato, ha un’identità propria. Una vita sua, in un certo senso. Magari lontana dall’idea di partenza. Circa sei mesi per la fase di studio, in sala sono abbastanza veloce.
Sei direttore del “Balletto del Sud”, come è nato questo ensemble e come è mutato nel tempo?
Ora la compagnia è stabile e questo consente che ogni spettacolo abbia il giusto numero di prove. Il livello dei danzatori è molto alto. Tutti provengono da ottime scuole – molte di Stato – e poi continuano la loro crescita con i maestri della compagnia e con i numerosi spettacoli. Siamo arrivati a questi risultati negli anni, ma la compagnia ha avuto un livello professionalmente alto da subito. Con ospiti internazionali e collaborazioni significative. La compagnia è stata fondata a Lecce nel 1995. E continuiamo a crescere.
La tua compagnia è apprezzata a livello internazionale per la qualità degli allestimenti e le dinamiche narrative e tecniche con un gusto tipicamente italiano. Quanto è importante per te il legame con la tua terra e il tuo Paese?
Un gusto italiano, ma anche molto internazionale. Mario Pasi definì il Balletto del Sud sul “Corriere della Sera” come una delle poche compagnie italiane di gusto e programmazione Europea. In effetti siamo molto simili, per repertorio e tipologia di ballerini alle numerose compagnie che vivono in Germania, Francia e Inghilterra. L’Italia è una fonte infinita di spunti creativi e ispirativi e rappresentarla è un grande onore. I nostri sono spettacoli completi di scene e costumi, come raramente oggi accade.
Ti elenco qualche nome e tu lo associ ad un pensiero o ad un ricordo in particolare:
Vittoria Ottolenghi?
Il grande critico di balletto, una donna d’acciaio. Ho avuto la fortuna di conoscerla e di farmi conoscere. Lei mi ha dato soprattutto “delle dritte” come direbbe lei stessa. L’ho conosciuta a fondo, mi ha voluto bene e ha creduto in me. Poi anche severamente ha intuito come potevo diventare più bravo e io ho seguito i suoi consigli per completare la mia formazione.
Beppe Menegatti?
È il maestro con il quale dialogo attualmente. Conosce profondamente la danza e il teatro in generale. È un regista, un creativo con estreme sollecitazioni culturali. L’interazione e la connessione con gli artisti del passato sono la sua ossessione. Tutto è legato da un filo. Rimpiange di non essere vissuto nella Parigi di Diaghilev per incontrare Cocteau, Picasso, Coco Chanel, Hemingway, i Fitzgerald. Gli dico spesso di guardare “Midnight in Paris” di Woody Allen, ma si rifiuta perché qualcuno gli ha detto che hanno male interpretato la figura di Gertrude Stein (ruolo di Kathy Bates) e non vuole rimanerne deluso. Modestamente dice che sono l’unico che gli tiene testa nelle conversazioni (…ogni tanto mi aiuto con lo smartphone).
Pier Luigi Pizzi?
È il grande maestro dell’estetica, un genio della formalità. I suoi spettacoli sono trattati di filosofia delle forme e dei colori. Se lavori con lui c’è un prima e un dopo. Mi ha insegnato l’attenzione al dettaglio. Regole precise e severissime vengono poi sovvertite da slanci infiniti di creatività. Un orgoglio italiano nel mondo. Una mente giovanissima che ha ancora tanto da dire e che dobbiamo ascoltare.
Lindsay Kemp?
Abbiamo collaborato in diverse produzioni, ho creato per lui due ruoli: Carabosse e Kascheij. È stato un momento importante della mia formazione. Mi ha insegnato come evidenziare la psiche dei personaggi. Il “sottotesto” come si dice in teatro. I valori del “patetico”, dell’emarginato che chiede un suo posto nel mondo, la solitudine, la vecchiaia, sono maschere del teatro che lui stempera e trasforma in eccellenti caratteri scenici. In una intervista mi ha definito “il suo figlio italiano”, ne sono onorato.
Vladimir Vassiliev?
Ho lavorato con lui in una produzione al Teatro dell’Opera, uno spettacolo di Menegatti, nel quale interpretava Nižinskij ormai folle nella clinica svizzera dello psichiatra Eugen Bleuler. È stato un grandissimo danzatore e grande interprete, ma la breve esperienza di collaborazione non mi ha concesso di conoscerlo meglio.
Che ricordi hai delle splendide Maratone internazionali di danza?
Momenti bellissimi, organizzati da Vittoria Ottolenghi. Un confronto tra coreografi di diverse generazioni che portavano brevi brani con un soggetto comune, o in attinenza. Io e la compagnia eravamo molto giovani, ora le affronterei in maniera diversa. Ma comunque avevamo il nostro successo e i nostri applausi. Vittoria non è stata mai più sostituita.
La danza è un’arte libera, sei d’accordo?
Assolutamente sì. Ma in ogni caso riconosco la degenerazione di questo principio di libertà. Scuole private contro ogni principio di etica e gusto creano solo disinformazione allontanando il pubblico che spesso abbina il concetto di spettacolo di danza al saggio di fine anno di una scuola. Meno, e con più qualità, aiuterebbe sicuramente il settore. Ma per affrontare l’annosa questione credo che un atteggiamento democratico sia per il momento la strategia migliore.
Come si deve valutare obiettivamente un balletto, una creazione coreografica, uno spettacolo di danza?
Non credo ci sia una regola obiettiva. Sicuramente una formazione strettamente legata al linguaggio della danza, in senso tecnico, può smascherare certi bluff. I professionisti della danza sono sempre abbastanza in accordo sui giudizi. Ma tutto è relativo. Non sempre la critica è in accordo con il pubblico, non sempre gli operatori e i direttori artistici hanno la stessa idea degli addetti ai lavori. Spesso delle compagnie di giro provenienti dall’est Europa hanno un livello bassissimo poco più che imbarazzanti. Gli addetti ai lavori sono tutti concordi, ma capita ancora di leggere recensioni consenzienti che non solo rendono fragile il sistema danza-mercato ma screditano praticamente chi firma l’articolo. Così capita anche per alcune compagnie di danza contemporanea. Spesso un sold out non è sinonimo di qualità, spesso il teatro vuoto, con trenta spettatori, non è sinonimo di genialità incompresa. Abbiamo comunque in Italia ottime firme della critica molto preparate, ma purtroppo non hanno “voce” (spazi dove scrivere). La stampa ha eliminato gli spazi alla critica. Nessuno comunque ha la verità in tasca. Nessuna “ultima ricerca dell’Università di Cambridge” ha scoperto la regola perfetta per giudicare un balletto.
Oggi come oggi, si compra l’opera o si compra piuttosto l’artista?
Oggi si compra l’opera ma stiamo lavorando per cambiare questa brutta abitudine. Specialmente nella danza il coreografo è come l’autore di un libro. Se ne hai letto uno che ti piace, continui a seguire l’autore. Così bisognerebbe fare con la danza. Anche il cinema è riuscito a slegarsi dai titoli. Ovvero se andiamo al cinema a vedere il Romeo e Giulietta di Zaffirelli, sappiamo bene che sarebbe diverso da un Romeo e Giulietta di Pasolini, o di Spielberg, o di Tinto Brass.
Gran parte dei balletti od opere liriche che i grandi Teatri portano in scena, appartengono ad artisti già passati a miglior vita! Cosa manca ai giorni nostri per entrare nell’immortalità?
In un certo senso le due domande sono legate. L’opera ha bisogno di duecento anni per essere conosciuta da un vasto pubblico e consentire incassi sicuri. È ovvio che La Traviata, oltre ad essere un capolavoro musicale, garantisce un successo di botteghino che tranquillizza direttori e programmatori. I momenti di crisi economica favoriscono la zona comfort. Si preferisce spendere per qualcosa che sappiamo cosa è senza sorprese. La novità è una fatica in se. Non sempre c’è la voglia di imparare e il gusto per la scoperta è sostituito dal gusto per la riscoperta. Lo spettatore preferisce canticchiare qualcosa che quasi conosce che ripartire da zero… Comunque gentile Olivieri non sia così negativo, ci faccia prima morire serenamente per sapere se diventeremo immortali!
Parlami un po’ dei tuoi danzatori e del dietro “le quinte” del Balletto del Sud?
Siamo davvero una bella compagnia, con molte eccellenze. Basta pensare a Nuria Salado Fustè, Carlos Montalvan, Alessandro De Ceglia, Alexander Yakovlev danzatori speciali per tecnica e interpretazione. E stiamo formando una nuova squadra di talenti come Martina Minniti, Stefano Sacco e Francesca Raule. Abbiamo nell’organico danzatrici di esperienza come Serena Ferri, per vent’anni protagonista degli spettacoli dell’Ensambe di Micha Van Hoecke o il valido attore Andrea Sirianni che collabora stabilmente con noi. A questi si aggiungono un bel gruppo di danzatori, che animano le scene di gruppo. Poi la struttura ha un valido ufficio e un ottimo staff tecnico.
Per concludere, la passione per la danza è sempre la stessa o nel tempo muta?
Nel tempo muta, diventa altro. Ci si annoia per quello che ti piaceva da giovane e si è interessati a quello che ti annoiava. La percezione di uno spettacolo è sempre diversa. Anche se è tuo.
Michele Olivieri
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