Nata a St. Julien en Genevois (Francia), Giulia Tonelli ha vissuto l’infanzia a Pisa dove ha frequentato le Scuole di danza di Joana Butnariu e Marina van Hoecke, sorella del ballerino e coreografo Micha van Hoecke. L’educazione professionale è cominciata con la Scuola del Balletto di Toscana ed è proseguita all’Accademia di Balletto della Wiener Staatsoper sotto la guida di Bella Račinskaja. Dopo il diploma accademico, ha ottenuto il suo primo ingaggio nel 2001, al “Balletto dell’Opera di Stato” di Vienna. L’anno seguente è stata assunta dal “Balletto Reale delle Fiandre” dove è promossa Demi-solista. Ad Anversa ha danzato in ruoli solisti in molte opere importanti fra cui “Apollon Musagète” di George Balanchine, “In the Middle Somewhat Elevated” di William Forsythe, “Sleeping Beauty” nella versione di Marcia Haydée, “Duo aus 27’ 52” di Kylián e il ruolo titolare in “Giselle” di Marius Petipa. Nel 2010 è entrata come solista al “Balletto di Zurigo” dove ha interpretato ruoli principali in nuove creazioni di Spoerli, Goecke, McGregor, Lee, Forsythe, Kylián e nel “Lago dei Cigni” di Alexei Ratmansky. Ha danzato i ruoli da protagonista di Giulietta e Lena nelle opere di Christian Spuck “Romeo und Julia” e “Leonce und Lena” e Betsy in “Anna Karenina”. È stata ancora chiamata a ruoli principali in “Quintett” di William Forsythe, in “Messa da Requiem” di Christian Spuck, in “Emergence” di Crystal Pite e “Faust – Das Ballett” di Edward Clug. Al “Balletto di Zurigo” è stata promossa Prima Solista per poi diventare Prima Ballerina nel 2018. Per il ruolo di Gretchen, la protagonista di “Faust”, il magazine internazionale “Dance Europe” la premia per la migliore performance del 2018 in un ruolo femminile. È stata invitata come ospite d’onore a numerosi Gala Internazionali della Danza, quali il “Bilbao Gala d’Etoiles” 2009, il “Praga International Ballet Gala” del 2014 e del 2015, il “Gala Internazionale di Danza della Croce Rossa Udine” nel 2013 e nel 2015. Nel 2010 la televisione svizzera l’ha scelta come protagonista di una campagna per la sicurezza stradale. Nel 2016 la SRF le ha dedicato un breve documentario dal titolo “A day in the life of a prima ballerina”. Nel 2021 viene intervistata per presentare l’anteprima di “Winterreise” il balletto con cui Christian Spuck ha vinto il “Prix Benois de la Danse” e che viene riproposto sulla TV Arte. Giulia Tonelli è sposata dal 2014 con Bernhard Auchmann. La gravidanza che ha portato alla nascita di Jacopo nel dicembre 2018, è stata oggetto di un reportage sull’esperienza di prime ballerine che hanno avuto figli negli anni più intensi della loro carriera.
Gentile Giulia qual è stato il ruolo che più hai sentito “tuo”, fino ad oggi?
I ruoli che mi hanno rappresentata sono stati Giselle e Giulietta. Il potere drammatico di questi due personaggi mi ha permesso di mostrare qualità che a mio avviso sono parte centrale del mio modo di fare danza, ovvero la trasformazione, attraverso un balletto, di me stessa per dar voce a tante sfaccettature diverse.
In cosa la danza ti è servita? Quale insegnamento di vita ti ha regalato di più bello?
La danza prende tanto e dona tanto. Se da un lato ti toglie spensieratezza e leggerezza negli anni in cui si è giovani e si ha bisogno di attraversare la vita senza troppi pensieri, dall’altro regala centralità e disciplina. Ti insegna a perseverare per raggiungere un obiettivo e sa essere molto meritocratica. Non conta lo status sociale: con lavoro e talento si possono raggiungere obiettivi inimmaginabili.
Da dove parte la tua personale ricerca artistica per interiorizzare un ruolo dal punto di vista espressivo ed interpretativo?
Quando mi accingo ad interpretare un ruolo mi fido del mio istinto artistico. Forse è la qualità che più mi ha sempre contraddistinto. Ho naturalezza nel capire un personaggio e mi affido alla musica e alla mia interiorità per render onore al ruolo che mi viene chiesto di ballare.
Come hai scoperto l’arte della danza da piccola? Qual è il primo ricordo in assoluto?
I miei genitori mi hanno detto che a casa io ballavo e creavo piccole coreografie, il mio sipario erano le tende della sala. Non ho un ricordo perché avevo solo tre anni ma credo che dentro di me ci sia sempre stato un vulcano emotivo che aveva bisogno di esprimersi attraverso la musica e il movimento. Dico musica prima perché penso di essermi innamorata inizialmente della musica, la danza deve servire la musica e non il contrario.
Come ti vedi un giorno appese le scarpette al chiodo? Maestra, coreografa o che cosa?
Domanda difficile Michele. Una parte di me sogna una vita completamente distante dalla danza in quanto sono sempre stata una mente curiosa e assetata di mondi diversi dal mio. Un’altra parte di me vorrebbe utilizzare l’enorme bagaglio che la danza mi ha regalato nei suoi venticinque anni di carriera e sviluppare un nuovo modo di essere direttrice di una compagnia professionale. Adoro poter contribuire a far crescere i giovani ballerini o anche ballerini più maturi, condividendo ciò che per me è stato utile in questo percorso.
Qual è il ruolo che si avvicina di più al tuo carattere per temperamento e personalità?
Non saprei quale ruolo mi si avvicini di più in quanto io ho una parte solare, allegra e spumeggiante e una parte ombrosa, malinconica ed estremamente sensibile… difficile trovare un personaggio che incorpori tutti questi lati.
Un domani con quale titolo o ruolo ti piacerebbe dare l’addio alle scene?
Mi piacerebbe dare l’addio alle scene con un ruolo che non ho mai ballato ma che con la maturità di oggi vorrei tanto poter danzare: Tatjana in “Onegin”.
Durante l’emergenza sanitaria come hai vissuto il periodo di chiusura, dal punto di vista umano ed artistico?
Durante il Covid soffrivo nell’impossibilita di potermi esprimere e così ho creato una serata online con alcuni dei miei colleghi. Ho trovato uno spazio dove far le riprese e insieme alla collaborazione di amici coreografi ho messo su una serata danzante che ci ha permesso per qualche mese di ritrovare la nostra voce artistica. Son stati mesi difficili per ciò che riguarda il bisogno che ogni artista ha di usare la danza come difesa per le incolumità della vita.
Tre città a te molto care sono Pisa, Vienna, Anversa e Zurigo: me le descrivi dal tuo osservatorio?
Beh Pisa è casa… è dove sono cresciuta fino ai miei sedici anni, città a misura d’uomo e perfetta per la mia crescita. Vienna è stato un sogno, città importante, piena di ricchezze artistiche e storiche. Ed è stata per me la città che ha segnato la svolta definitiva nella mia vita. C’è stato un prima di Vienna e dopo Vienna nella mia carriera di ballerina. È la città che mi ha permesso di raggiungere il mio sogno. Anversa è una città dinamica e giovanile, alla moda, dove non manca la creatività. Ha segnato per me l’inizio del mio percorso professionale. Ne conservo un ricordo bello in quanto parte delle amicizie più forti che ho le ho create proprio ad Anversa. Infine Zurigo è una città bella, pulita funzionale, a volte troppo conservatrice. Ma è anche la città dove sono nati i miei due bambini e che ha visto l’apoteosi della mia carriera.
Qual è il momento di maggior tenerezza che ti lega ai tuoi inizi verso un futuro così prezioso di soddisfazioni?
Un ricordo tenero sono io che partecipo ad una audizione per entrare alla scuola del “Rudra” di Maurice Béjart. Avrò avuto quindici anni. Ero impacciata, insicura, mi sentivo il brutto anatroccolo. Emanavo insicurezza da ogni poro. Cercavo di farmi forza e di concentrarmi sulle mie qualità ma fu tutto inutile. Non mi presero e provai un enorme senso di vergogna. A volte ripenso a quella Giulia e vorrei abbracciarla e dirle che va tutto bene, che il giudizio di una persona non è la fine del mondo e che ognuno lavorando può trovare il posto che fa per sé.
Quanto è cambiata, in termini evolutivi e fisici, la disciplina coreutica dai tuoi inizi ad oggi?
La danza per me sta evolvendo e sta diventando sempre più una disciplina quasi ginnica. Il livello di perfezione fisica sta raggiungendo livelli estremi e così facendo temo si stia perdendo individualità e arte. La cosa che forse più mi spaventa è la danza vissuta come maniera per esporsi mediaticamente. Ecco questo bisogno di pubblicizzare attraverso i social-media un’arte così speciale e così effimera è per me una nota stonata. Non dico che sia sbagliato promuoverla e farla conoscere al grande pubblico ma il bisogno spasmodico di condividere ogni attimo, ogni acrobazia tecnica, ogni “cou de pied” sui social-media… questo voyeurismo lo trovo molto volgare e poco consone alla danza per come la intendo io.
La passione per la danza è sempre la stessa o nel tempo muta?
La passione muta senz’altro… all’inizio la danza era tutto per me. Pensi di non poterne fare a meno. Poi crescendo e vivendo ti rendi conto che ci sono anche altre sfere nella vita che acquisiscono maggior valore. La danza è ricerca costante di bellezza… la vita invece è fatta di cadute, sbagli, errori e correzioni. Ecco dopo anni ed anni in cui mi giudico in maniera tagliente ho bisogno di più clemenza verso me stessa e questo a volte mi fa distaccare dalla danza intesa come ricerca forsennata di perfezione.
Quali sono le più belle esperienze che conservi nel mondo della danza contemporanea?
Ho lavorato con grandi nomi come Kylian, Forsythe, Pite, Ek, Goecke… ognuno di loro mi ha cambiata. Mi ha insegnato qualcosa che porto con me e che mi serve anche quando torno al classico puro. Cogliere la poesia di Kylian, il movimento dinamico e musicale di Forsythe, il volume e l’ampiezza di Pite, il movimento ‘grounded’ di Ek e la precisione di Goecke, tutto questo bagaglio mi rende una ballerina più completa in ogni settore.
Un pensiero per la maestra Bella Ratchinskaya?
Bella Ratchinskaya è stata l’insegnante che mi ha permesso di diventare una ballerina vera. Mi chiamava ‘l’artista’… ma poi mi metteva sotto torchio per spronarmi a recuperare quelle basi che non avevo avuto. All’inizio ne ero intimidita ma poi ho capito che se volevo farcela dovevo ascoltare ed imparare.
Mentre per Joana Butnariu e Marina van Hoecke?
Joana è stata la prima a riconoscere in me un talento che io non volevo ammettere di avere… o meglio ne ero spaventata. Aveva chiesto più volte ai miei genitori di iscrivermi ad una scuola più prestigiosa… ma io mi rifiutavo. Ne conservo un ricordo molto bello. Marina è stata la mia mentore, mi spronava a credere in me e mi ha spinta e lanciata. Le sarò grata a vita anche perché oltre ad esser stata una insegnante bravissima era anche una persona di grande spessore umano.
Invece per Christian Spuck con il quale hai collaborato in numerose occasioni?
Con Spuck ho lavorato per ben dodici anni ed il suo linguaggio artistico è come tornare a ‘casa’ in un certo senso. Ne colgo le sfumature ed è un linguaggio coordinato e scorrevole che riesce ad esaltare le mie doti di ballerina.
Per il “Faust”, la rivista “Dance Europe” ti ha premiata per la migliore performance. Come ti eri avvicinata al ruolo di Gretchen?
Ho avuto tre nomine come migliore danzatrice dell’anno. Gretchen in “Faust”, “Angels atlas” di Crystal Pite e “The cellist” di Cathy Marston. Per Gretchen ho letto passaggi del “Faust” ed è stato interessante perché il suo personaggio non mi si addiceva per niente, o meglio era molto diversa da me e a volte avevo difficoltà ad immedesimarmi. Ma poi quando sono sul palco creo sul momento e mi faccio trasportare dalla storia.
Prima di entrare in scena hai dei riti scaramantici?
Sì certo ma non posso condividerli con i lettori…
Se tuo figlio volesse intraprendere la carriera di ballerino ne saresti felice?
Ai miei figli lascerò la libertà di scegliere chi vorranno essere e certamente non mi opporrei se volessero diventare ballerini. Ma una parte di me sogna per loro qualcosa di diverso… forse perché so quanto questo mondo possa essere difficile e mi auguro per loro una strada magari meno in salita.
Secondo te Giulia il talento cos’è e come si riconosce?
Difficile definire cosa sia il talento. Di certo nella danza si dovrebbero distinguere tra doti fisiche e talento artistico. Penso che il talento sia una luce, un qualcosa che ti fa contraddistinguere dagli altri. Una qualità che ti faccia spiccare in mezzo a tanti magari anche più perfetti di te. Ecco questo per me è talento!
Da un po’ di tempo si assiste, nella danza, ad una rilettura in chiave contemporanea di molti classici, qual è il tuo pensiero su queste operazioni?
Per me la sperimentazione di balletti in chiave contemporanea va bene a patto che si accetti che certi classici non devono e non possono morire perché sono parte importante della nostra cultura e storia. Rivisitare certe tradizioni con l’intento di apportare qualcosa di nuovo è giusto ma senza mai denigrare le origini.
Che cosa ti fanno venire in mente le parole “rigore e disciplina”?
Sono qualità imprescindibili nella danza. Sono la base per barcamenarsi nella vita.
Per molti danzatori la danza è sacrificio e per molti altri è semplicemente passione… per te la danza in termini di rinunce cosa ha rappresentato?
La danza è sicuramente una passione che non ti fa vedere la rinuncia. Ma dopo una vita intera dedicata alla danza mi rendo conto che mi sono imposta regole ferree che a volte hanno tolto a me e ai miei familiari quella spensieratezza che è anche giusto avere nella vita.
Dopo tanti anni di palcoscenico, oggi cosa ti emoziona in particolare nella tua professione?
Mi emoziona l’obiettivo comune che nella danza ci porta tutti ad essere al servizio dell’altro. La professionalità dei ballerini è un qualcosa di magico.
Ai moltissimi giovani che desiderano intraprendere la professione tersicorea, qual è il tuo primo consiglio?
Crediate in voi stessi, non fatevi manipolare per mettervi a servizio del successo degli altri. Siate consapevoli delle vostre scelte e curate la mente e non solo il corpo.
Per un artista o meglio per Giulia, alla fine di una rappresentazione quando gli applausi si stemperano, il sipario si chiude e le luci si abbassano qual è la sensazione che pervade l’animo: tristezza o gioia?
Quando tutto finisce e l’euforia si placa rimaniamo per un attimo soli con noi stessi. E questo momento è indispensabile prima di tornare al tran-tran quotidiano… è come se ci fosse un vuoto, una malinconia per qualcosa che si è appena vissuto e al tempo stesso anche perso. Quindi direi che pervade un sentimento di svuotamento e dunque quasi di tristezza.
Come vivi la tua popolarità?
La popolarità è relativa in quanto sono una persona con i piedi per terra. Questo è un insegnamento d’oro che mi è stato dato dai miei genitori. Mai esaltarsi troppo per un successo e mai abbattersi troppo per un insuccesso. Cerco di coltivare la mia persona a prescindere da Giulia la ballerina in quanto trovo sia importante ricordarsi sempre da dove siamo partiti e chi vogliamo diventare. L’essere diventata madre mi ha ancorata ancora di più al terreno e mi permette di vivere gli attimi di popolarità con un sorriso senza mai montarmi la testa in quanto sono ben altre le cose essenziali nella vita.
Se ti fosse data l’opportunità di danzare un ruolo creato appositamente per te, a quale storia penseresti?
Mi piacerebbe un ruolo di una donna con carattere, combattiva, che crede in ciò che fa. Mi viene in mente Artemisia Gentileschi, un’artista a tutto tondo che si è battuta contro i pregiudizi dimostrando un’enorme resilienza e ha lottato per salvare il suo onore facendo della pittura la sua arma di rivendicazione per l’abuso subito.
Parlaci del film-documentario “BECOMING GIULIA” diretto da Laura Kaehr che ci fa scoprire la bellezza del balletto, ma anche l’enorme lavoro che comporta?
Il film “Becoming Giulia” è nato come documentario volto a dimostrare la possibile compatibilità tra l’essere mamma e il fare la ballerina. Ovviamente è una compatibilità fragile e sulla quale mi batto con tenacia affinché diventi sempre più possibile coniugare le due identità. Questo documentario è il risultato di un lavoro durato tre anni; non è stato affatto semplice avere nel mio privato una persona che doveva cogliere su di me e sulle persone a me più care, tutte le sfaccettature che potessero rendere veritiero il film. Ho avuto momenti di grande sconforto in cui volevo stoppare tutto, ma adesso col senno di poi mi reputo fiera del risultato e soprattutto trovo che sia un meraviglioso regalo per mio figlio Jacopo che da grande potrà guardarlo e capire qualcosa di profondo riguardante la sua mamma.
Uno sguardo intimo e impegnato al viaggio di una donna che rivendica il proprio corpo e quindi sé stessa per essere di nuovo sul palcoscenico dopo la maternità?
Come già detto prima, la figura della ballerina è ancora molto legata a stereotipi antichi. In questo scenario la mamma-ballerina è ancora in qualche modo una aliena. Si stanno facendo enormi passi avanti ma è un processo ancora lungo. Trovo che se si vedesse l’incredibile potenziale della maternità e quanto questa esperienza possa renderci artiste migliori allora si avrebbe più cura e rispetto per applicare degli accorgimenti per quei giovani padri o madri che si trovano a fare i conti con un lavoro altamente performante e stressante e la realtà di un bambino piccolo a casa.
Nel giugno scorso hai deciso di lasciare il Balletto di Zurigo e sei stata ingaggiata dallo “Scottish Ballet” di Glasgow per ballare “Lo Schiaccianoci” nel ruolo di Sugar Plum Fairy. Felice di questa nuova avventura?
Il mio lasciare il “Balletto di Zurigo” è stata una scelta dolorosa in quanto ho passato lì gli ultimi quattordici anni della mia carriera. Con il recente cambio di direzione non c’erano più le condizioni per poter proseguire la strada di artista matura e mamma di due splendidi bambini. La proposta dello “Scottish Ballet” diretto da Christopher Hampson è arrivata inaspettatamente in un momento in cui avevo bisogno di credere ancora nella danza e nelle persone. Sono molto felice dell’esperienza a Glasgow. In questa compagnia ho trovato grande entusiasmo e grande umanità.
Michele Olivieri
Foto: Hannes Kirchhof
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