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Linguaggi di danza tra tecnologie del corpo ed esperienza estetica. Intervista a Cristina Kristal Rizzo.

Linguaggi di danza tra tecnologie del corpo ed esperienza estetica. Intervista a Cristina Kristal Rizzo.

 

Cristina Kristal Rizzo, dancemaker, è attiva sulla scena della danza contemporanea italiana a partire dai primi anni 90. Basata a Firenze, si è formata a New York alla Martha Graham School of Contemporary Dance, ha frequentato gli studi di Merce Cunningham e Trisha Brown. Rientrata in Italia ha collaborato con diverse realtà artistiche tra cui il Teatro Valdoca, Roberto Castello, Stoa/Claudia Castellucci, Mk, Virgilio Sieni Danza, Santasangre. É tra i fondatori di Kinkaleri, compagnia con la quale ha collaborato attivamente attraversando la scena coreografica contemporanea internazionale e ricevendo numerosi riconoscimenti. Dal 2008 ha intrapreso un percorso autonomo di produzione coreografica indirizzando la propria ricerca verso una riflessione teorica dal forte impatto dinamico tesa a rigenerare l’atto di creazione stesso e ad aprire riflessioni sul tempo presente. Attualmente una delle principali realtà coreografiche italiane è ospitata nei più importanti festival della nuova scena internazionale. Alla circuitazione degli spettacoli si affianca una intensa attività di conferenze, laboratori e proposte sperimentali. In qualità di coreografa ospite ha creato coreografie per I principali enti Lirici ed istituzioni teatrali italiane, tra i quali: il Teatro Comunale di Firenze – Maggio Musicale Fiorentino, il Balletto di Toscana Junior, Ater Balletto.

 

Partendo dagli studi da te compiuti al fianco e sulla stregua di celebrità della danza moderna e contemporanea, come Martha Graham, Merce Cunningham e Trisha Brown, mi sai dire a quale di essi sei tutt’oggi particolarmente legata affettivamente e tecnicamente?

Il periodo formativo è stato per me fondamentale, soprattutto perché ho vissuto per alcuni anni a New York costruendo così un percorso che ha trasformato la mia persona e il mio corpo. Ho approfondito la tecnica Graham, studiando quotidianamente gli esercizi, il repertorio, il metodo d’insegnamento e sviluppando un primo approccio autoriale, ma anche approfondendo il mio training con la post-modern dance. Credo semplicemente che conoscere e attraversare le tecniche moderne e post-moderne mi ha permesso di costruire una tecnologia del corpo minuziosa e specifica ma anche e soprattutto di allargare la visione e sviluppare una pratica personale. Ogni informazione ricevuta è memoria del corpo.

Passando, invece, al ramo delle collaborazioni professionali è inevitabile citare i nomi di realtà artistiche quali Teatro Valdoca, MK, Santasangre, Virgilio Sieni, Roberto Castello e altri ancora. Ognuna di esse ha contribuito a “comporre” il tuo stile performativo autonomo o ne ha rappresentato solo un’utile fonte d’ispirazione?

Tutta la mia attività autoriale e professionale è cominciata dopo gli anni newyorkesi: tornata in Italia ho fondato il collettivo Kinkaleri con il quale ho attraversato per un decennio la scena internazionale della performance dal vivo e prodotto numerosi spettacoli, oggetti coreografici e pubblicazioni, aprendo la scena italiana al panorama internazionale. La scelta di fondare un collettivo ha delle risonanze molto forti in tutto il mio lavoro: evidentemente ho sempre trovato la collaborazione con altre realtà artistiche una modalità attiva che dona potenzialità ai processi creativi e attua nei fatti una pratica politica. Questo per dire che con tutti gli artisti successivamente incontrati, ho sviluppato dei rapporti collaborativi molto ampi, con alcuni lavorando come pura interprete e con altri articolando discorsi comuni e condivisione di pratiche.

Dal 2008 ha inizio il tuo percorso personale, il cui progetto apripista a firma autoriale è Dance N°3, la cui idea è stata prodotta, come cita testualmente la tua biografia web, “attraverso scambi di scrittura corporea tra i coreografi Eszter Salamon, Michele Di Stefano e Matteo Levaggi”. Mi sapresti spiegare più dettagliatamente questo processo compositivo?

Dance N°3 è il primo progetto coreografico che ho articolato quando nel 2008 sono uscita dal collettivo Kinkaleri, in quel momento, dopo 10 anni di condivisione sia artistica che organizzativa, è stato fondamentale attivare dei processi di trasformazione del fare artistico e anche una ricerca il più possibile specifica su cosa vuol dire essere un autore, ma anche essere un interprete. Tutto il progetto dunque si è sviluppato intorno all’idea di scrivere una partitura coreografica per poi insieme ad altri tre coreografi, scelti per vicinanza, affinità o diversità, attraversare insieme la partitura per creare dei brevi soli da me interpretati. Il risultato finale è infatti uno spettacolo costituito da questi attraversamenti multipli, uno spettacolo che mette in gioco l’idea di trasmissione e di traduzione ed evidenzia la potenza di un corpo che attraverso la diversità e l’espansione, reinventa letteralmente la sua capacità espressiva. La scrittura della partitura di Dance N°3 è stata la fase più importante ed elettrizzante del processo: si è trattato di trovare una forma di scrittura, non una notazione di movimento, ma una costellazione di parole e immagini che andasse a costituire una visione del mondo condivisibile e attraversabile in maniera affettiva da qualcun’altro. Ancora oggi chiunque potrebbe prendere questa ‘ score’ e farci qualcosa. (Qui è dove trovarla: http://www.cristinarizzo.it/dancen3/images/partitura_Dance_N°3.pdf). Evidentemente, il lavoro ha creato anche degli interessanti spostamenti dal punto di vista del copyright, poiché io ne sono l’autrice a tutti gli effetti, ma nei fatti è una creazione che vede coinvolti contemporaneamente quattro autori diversi.

Successivamente la tua carriera si articola di progetti che coinvolgono anche ulteriori sfaccettature artistiche, come nel caso delle performance lectures del progetto Loveeee, in collaborazione con la studiosa Lucia Amara. Cosa ti/vi ha spinto a indagare e performare in tale direzione?

LOVEEEE ha proseguito nel solco lasciato dal progetto coreografico Dance N°3 che mi aveva vista attiva con la studiosa Lucia Amara per la stesura della partitura coreografica. Già in quella occasione, la ricerca della scrittura portò l’esperienza dal vivo a tracciarsi attraverso alcune performances che amplificavano la frequentazione,  condivisa con il pubblico, di un luogo ideale e protetto dove si allenavano simultaneamente il movimento di un pensiero e la scrittura di un corpo. Cito testualmente il testo di presentazione del progetto scritto a quattro mani con Lucia Amara perché meglio esprime il desiderio dell’oggetto: “Fuori dall’istanza teologica, la grazia riguarda una certa attitudine dell’opera e dell’individuo verso l’esterno e, anche, verso la norma. Caratterizzata da una certa efficace organizzazione della forza e della libertà delle risposte di fronte alle gerarchie precostituite, indica una più intima democrazia. La grazia, è una categoria di confine, lontana dalla perfezione sicura e statica del Bello. Essa non è solo la bellezza in movimento, ma è l’incontro paradossale di un risparmio, di un abbandono e di una rivelazione di potenza che sorprende e supera le nostre attese, secondo i principi di un’estetica della sovrabbondanza, del successo miracoloso, del rischio, dello slancio e dell’inesperato. Rarefazione del potere. Torsione. Generazione del possibile. Parabola con il potere. La grazia è politica di dissimulazione, è in grado di cambiare le prodezze tecniche ed il dominio delle esigenze indicando una di sparizione dei sistemi. Loveeee ha aperto ad un’ospitalità estesa ed estrema. Promuovendo una coabitazione tra la  teoria e la pratica, tra il concetto e la prassi e ri-abitando con nuovi patti e nuove abitudini gli spazi dello spettacolo e della performance.”

Tra il 2012 e il 2014 produci tre creazioni che rivolgono pienamente l’attenzione alla storia della danza: Invisible piece, fondato sulla prima versione de La morte del cigno eseguita da Anna Pavlova; La sagra della primavera. Paura e delirio a Las Vegas, basata sull’omonima opera di Stravinsky; e, infine, BoleroEffect, costruita sulla celebre composizione di Maurice Ravel. Come mai questo sguardo al passato così mirato e, nello stesso tempo, questo desiderio di “decostruirlo” coreograficamente?

Dal 2012 in effetti è cominciato un diverso corso nel mio fare: non si trattava più di decostruire la scena e la rappresentazione ma di spostare l’attenzione sulla pura comunicabilità della danza, potenzialmente intesa come un luogo dove sottrarsi alla volgarità dell’obbedienza. Le strategie coreografiche messe in campo dunque nei tre lavori di cui mi chiedi mirano a spostare il proprium del movimento in uno spazio che alleggerisce i corpi e le immagini del carico psicologico, simbolico o narrativo e ad aprire lo sguardo ad una danza leggera, ad altri strati percettivi ed espressivi come origine di un senso a venire.

De La sagra della primavera ho potuto assistere sia alla versione per 12 uomini, creata in collaborazione con lo Junior Balletto di Toscana, sia a quella in solo, danzata da te in persona. Medesima fonte musicale, diversissima struttura performativa. Anche nell’idea primigenia vi è un tale estremo divario?

In verità queste differenti riprese della Sagra sono tutte occorrenze di uno stesso pensiero: la forza creativa dell’esperienza dell’ impotere. La collaborazione con lo Junior Balletto di Toscana si amplifica su un pensiero coreografico che visualizza una moltitudine in scena. Un’energia che da quantitativa si trasforma in qualitativa evidenziando il grado di volontà di ogni singolo danzatore. La moltitudine dunque non si contrappone alla soggettività, ma la ridetermina. Il tipo di energia è condivisa, ossia ognuno non partecipa più come un ornamento, ma trova il suo posto come soggetto e come intensità. In questo senso ribadisco che si tratta di una moltitudine e non di “un corpo di ballo”. Ciò che in scena si muove all’unisono è consapevole della parzialità e della fragilità, degli investimenti energetici con cui ogni presa di coscienza appare sempre in atto. E’ una forma di resistenza virtuale consapevolmente negoziata, una fisica della superficie che rivendica lo stato di natura nello spazio dell’uno. Nel 2013 ho ripreso il lavoro con un nuovo progetto solistico, come ulteriore espansione di questo concetto danzante, incrementando il titolo: La Sagra della Primavera. Paura e Delirio a Las Vegas ( la partitura Stravinskjiana e il film di Terry Gilliam del 1998 ) alludendo già dal titolo ai due diversi dispositivi con cui affronto la scena. Il pubblico in platea ascolta in cuffia una traccia musicale che comprende la Sagra della Primavera nell’esecuzione diretta da Pierre Boulez, mentre in scena, invece, organizzo la mia presenza, anche con riprese e citazioni danzate della coreografia corale del 2008, ascoltando con auricolari tutt’altra musica, rivelata allo spettatore solo alla fine. In questa nuova performance non vi è più nulla da decidere o da assolvere tra scena e audience. Finalmente, senza ambiguità alcuna, da una parte vi è la danza liberata da ogni relazione di norma e dall’altra parte, la visione liberata da ogni relazione di giudizio. L’atto d’abbandono a un movimento in pura perdita, privilegia l’esercizio di resistenza che fa del presente il tempo più vero di ogni realtà. The time of dance is now. La “primavera” in entrambi i lavori, probabilmente, è ciò che resta di questi intrecci e resistenze, di queste espansioni e di questi limiti.

A proposito, invece, di BoleroEffect, so che ne esiste una versione all night long, secondo la quale la perfomance si trasforma in un vero e proprio happening. Qual è lo scopo di questa scelta?

In BoleroEffect la tensione del nostro corpo, la mia e quella di Annamaria Ajmone con la quale danzo agganciata per tutta la durata della piece, è tutta tesa verso il fuori. La potenza di questa energia in espansione crea uno spazio perché i corpi di tutti possano esistere. BoleroEffect rivendica la possibilità del corpo di produrre un’esperienza, di incorporare una vibrazione e farla risuonare senza nessuna necessità comunicativa. È un principio di uguaglianza che emerge: la danza appartiene a tutti nel momento in cui appare, non importa dove. Questo principio rivela la possibilità di far emergere un altro tipo di comunità che si fonda sulla convivialità. Far apparire ciò che non appartiene a nessuno e proprio per questo moltiplicare l’infinito dei possibili. Si tratta sicuramente di considerare la forma come massima espressione dell’impersonale. Tutto questo ha a che vedere con la politica? Beh credo di si, se per tale si intende la possibilità di celebrare la libertà di tutti e il diritto dei corpi di essere indifferenti al capitale.

Recentemente hai creato una coreografia per Aterballetto (Tempesta / The Spirits) e per il Maggio Musicale Fiorentino (Orfeo e Euridice). Come hai vissuto queste esperienze lavorative a contatto con compagnie italiane di alto livello formativo, tecnico e espressivo?

È stato altrettanto interessante ed importante affrontare nei tempi e nei modi contesti così apparentemente lontani dalla mia ricerca. In verità si è trattato di amplificare ed espandere il linguaggio, assecondando altre dinamiche compositive e di fruizione. Trovare uno spazio di dialogo con corpi altri dove far risuonare l’esperienza, attivare delle strategie comunicative per dare potenza alla poesia del pensiero, alla solitudine e alla bellezza del muscolo.

Mi parleresti del progetto speciale La Piattaforma della Danza Balinese? In particolar modo, mi sapresti raccontare il contributo che hai dato ad esso tanto nell’ideazione quanto nell’attuazione?

La Piattaforma della Danza Balinese è un progetto temporaneo dedicato alle pratiche e alle ricerche della coreografia contemporanea realizzato insieme a Michele Di Stefano e Fabrizio Favale, nato nel 2014 ed in stretta collaborazione con Santarcangelo Festival Internazionale. Il dispositivo si è inserito nella normale durata e programmazione di un Festival come un evento climatico non previsto, concentrando l’attenzione su ciò che accadeva in mezzo al corso naturale degli eventi, per generare ambienti inattesi o selvaggi, tratteggiare ipotetiche e favolose performance e innescare così un immediato materiale di scambio con il pubblico. Più che un’immagine esotica o l’evocazione di un altro mondo, la Piattaforma della Danza Balinese è lo sguardo estemporaneo di un ensemble di artisti che si volta simultaneamente nella stessa direzione, aprendo così ad una modalità di fare progetto che valuta costantemente dal vivo economie reali e risorse immaginifiche per attivare un gesto artistico collettivo e indipendente di assoluta rapidità e leggerezza. L’ultima edizione si è svolta lo scorso maggio con un evento speciale prodotto dal Festival Fabbrica Europa di Firenze dal titolo Gamelan, che ha visto coinvolti 24 danzatori. Si tratta ogni volta di mettere in campo la propria esperienza e i propri desideri per aprire uno spazio dialogico ma anche molto intimo, che possa dare fiato ad un gesto primitivo e gioioso.

La tua fase di ricerca nel processo coreografico verte su una “riflessione teorica dal forte impatto dinamico”, per citare ancora dal tuo sito web. Alla luce della tua lunga e corposa carriera, ad oggi quale delle due componenti sopracitate ritieni sia stata maggiormente efficace a rendere fruibile la tua arte?

Non sono interessata a produrre un’arte “fruibile”. L’arte per me é solo e sempre un’esperienza dello sguardo condivisa, è un’esperienza estetica.

Marco Argentina

www.giornaledelladanza.com

Cristina Kristal Rizzo / No tengo dinero © Ilaria Scarpa

Cristina Kristal Rizzo / La Sagra della Primavera. Paura e Delirio a Las Vegas © Andrea Macchia

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