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Una questione di sensibilità: intervista a Massimo Leanti

 

leanti

Massimo Leanti nasce a Torino dove comincia a studiare danza con Don Marasigan per la tecnica Jazz, con Ileana Iliescu, Joan Bosiok e Giulio Cantello per la tecnica classica, arricchendo poi la propria formazione presso il “Joe Tremaine Dance Center” e presso l’“EDGE Studio di Hollywood CA”. Partecipa a numerosi workshop con insegnanti di fama internazionale tra cui Luigi, Cloude Thompson, Alex Magno, Wes Veldink. Intraprende la carriera di insegnante di Modern Jazz a partire dal 1988 presso la scuola del Teatro di Torino sotto la direzione artistica di Loredana Furno, dove rimane per tre anni. Nel 1991 si trasferisce a Ravenna dove apre la scuola “Progetto Danza” cominciando parallelamente a sviluppare l’interesse per la coreografia che lo porta a partecipare e vincere innumerevoli concorsi. Vittoria Ottolenghi lo chiama ospite nel 1997 all’Estate Fiesolana e a “Ballo è bello” presso il Teatro di Comacchio. Nel 2000 presso il “Todi Festival”. Nel frattempo, nel 1998, crea una coreografia per i Percussionisti della Scala, nell’ambito della manifestazione “Ravenna Festival”. Per il M.A.S di Milano, Accademia all’epoca diretta da Susanna Beltrami per la quale lavora dal 1998 al 2000, crea il suo primo spettacolo coreografato dal titolo “Wo-man” presentato a Roma al Teatro Valle, a Milano al Teatro Nuovo e alla Comuna Baires, al Festival di danza di Brisighella. Sempre per il M.A.S., nel 1999, mette in scena il suo secondo lavoro dal titolo “Aria”. Nello stesso anno viene chiamato dalla Compagnia del Balletto di Roma, diretta da Luciano Cannito, per coreografare un brano dal titolo “Contagio”. Nel 2000 mette in scena un lavoro ispirato al film “Central do Brasil” dal titolo “Post-Scriptum” con la regia di Maria Paola Cordella ed inizia la collaborazione didattica con il “California Dance Center” di Milano. Dal 2002 ad oggi si concentra sull’insegnamento, stringendo collaborazioni con diverse scuole in tutta Italia e comparendo nel cast dei più rinomati stage. Nel 2005 partecipa a Vignale Danza con lo spettacolo dal titolo “Siasincrono” con le musiche dal vivo di Riccardo Genovese. Nel 2006 debutta sul palcoscenico di Alassio con il progetto “Invideo, invidia”. Nel 2007 è il direttore artistico del festival Piossasco danza dove presenta la coreografia “Casa Kokeshi”. Dal 2008 è il direttore artistico del Workshop estivo Erice Danza. Nel 2012 mette in scena “40/15” al Festival di Rivoli (Torino). Nel 2013 mette in scena a Caserta presso la Masseria 40 “Uomini di Cartone”. Dal 2012 al 2017 collabora con Dancehause, Accademia Beltrami, Accademia Kataklò, Modulo Factory, M.A.S.

Caro Massimo, qual è stato il motivo che ti fatto innamorare della danza in tenera età?

Ahimè non in tenera età ma a diciannove anni. Nel 1983 uscì il film “Flashdance” e rimasi catturato dalla scena dove la “Rock Stady Crew” si esibiva nel parco facendo Break dance. Quella fu la scintilla che accese la mia passione, dopo pochi giorni lessi sul giornale “La Stampa” di una crew inglese che per una settimana veniva a Torino per fare una serie di spettacoli e per dare uno stage. Presi la palla al balzo e mi ci buttai. Un mio caro amico d’infanzia (Marco), a mia insaputa, iscrisse me e la mia crew ad una puntata di un programma televisivo su Rai 3 “l’orecchiocchio” ci chiamarono e ricordo che ci esibimmo nella sigla di chiusura con un entusiasmo fanciullesco. Da quel momento iniziò la voglia di esplorare il mondo della danza.

Quali sono stati i “primi passi” verso la formazione?

Iniziai il primo anno con la danza Jazz in un corso amatoriale di due volte alla settimana, l’anno dopo conobbi Don Marisigan un bravissimo insegnante filippino che lavora ed insegna a Torino da sempre, con lui studiai dieci anni, in contemporanea mi avvicinai alla danza classica e la fortuna volle che nella stessa scuola dove lavorava Don Marasigan insegnasse Ileana Iliescu (Prima Ballerina dell’Opera di Bucarest) che mi inserì (anche se avanti con l’età) in un suo corso. Più tardi studiai danza classica anche con Joan Bosiok, e infine con il mitico Giulio Cantello.

Quali sono state le maggiori difficoltà, sia a livello fisico che personale, che hai incontrato all’inizio degli studi?

La danza è fatta di difficoltà, quindi sin dall’inizio ho faticato e combattuto con il mio fisico, i miei muscoli e la mia non elasticità, ma la soddisfazione in ogni caso era tripla, quindi quando finivo le lezione c’era la consapevolezza di aver ricevuto e dato tanto dai miei maestri.

Chi sono stati i tuoi Maestri, nel periodo della formazione, verso i quali nutri maggiore gratitudine?

Don Marasigan per il rigore e la visione pulita ed estetica della danza / Giulio Cantello per la conoscenza di come il corpo di un danzatore deve e può funzionare danzando. Tutti i maestri Americani per le innovative dinamiche e per la grande carica emotiva che mi trasmettevano a lezione.

Il tuo ricordo più bello legato alla Scuola del Teatro di Torino?

Entrai nella scuola del Teatro di Torino come insegnante, un mio caro amico Peter Larsen (Danzatore della compagnia di Loredana Furno) si trasferì ad Alessandria e mi chiese di sostituirlo, la cosa piacque alla direzione e lavorai al Teatro di Torino per tre anni come insegnante. Ricordo con tenerezza le giovani danzatrici che muovevano i loro primi passi nella danza moderna.

Mentre della direttrice, la Signora Furno, cosa hai apprezzato di più nel suo lavoro?

In verità ho incontrato poche volte Loredana Furno ai saggi dietro le quinte, ma sicuramente è una Signora della danza per la sua personalità e la sua conoscenza le quali trasparivano anche solo in pochi gesti nel dirigere le sue allieve durante gli spettacoli.

La tua prima volta, in assoluto, quando sei entrato in palcoscenico in qualità di danzatore sia da allievo che da professionista, dove è avvenuto e con che cosa?

La prima volta come allievo fu al Teatro Alfieri di Torino per un saggio, inutile dire che per qualsiasi danzatore, allievo o professionista che sia, è un mondo che si apre dentro un altro. Le luci, le quinte e il guardare i danzatori più bravi ed esperti come si approcciano al palco è fantastico. La mia prima volta da professionista è stato un meraviglioso duetto dal titolo “In The Name of the Father” coreografia di Massimo Leanti e Nicola Mascia (ora danzatore di Sasha Waltz) al Teatro Rasi di Ravenna.

Con Vittoria Ottolenghi, oggi ancora molto amata e ricordata per l’esempio che ha dato di amore e di promozione dell’arte tersicorea., hai avuto la fortuna di conoscerla e collaborare con lei. Raccontami com’è stato il vostro incontro e cosa ti aveva colpito nella sua personalità e cultura?

Ho incontrato Vittoria Ottolenghi due volte, la prima nel 1997 quando lei promuoveva la danza Urbana (Hip Hop e Street Dance) ed era affascinata da questo mondo. Nel suo prologo dei quattro appuntamenti a cui ho partecipato, diceva che l’energia degli Street Dancers non l’aveva mai vista in centinaia d’altri danzatori che aveva conosciuto, e anche il modo di vestirsi completamente asessuato (con maglie e pantaloni over size) le dava l’idea di ragazzi/e i quali puntavano sull’essere e non sull’apparire. In quel periodo insegnavo Hip Hop e la signora Vittoria Ottolenghi mi invitò a Fiesole, Comacchio, Todi, Ravenna, dove portai la mia Crew (che tra i ragazzi vedeva un giovane Cristiano Kris Buzzi) e incontrai altre interessanti realtà italiane di danza urbana. La seconda volta la incontrai nel 2000 a Roma, dopo lo spettacolo con la compagnia del Balletto di Roma. In quella occasione presentai una mia coreografia dal titolo “Contagio” la direzione artistica era di Luciano Cannito. Lei finito lo spettacolo mi disse “Leanti lei ha un buon istinto coreografico ma rischia poco, provi a rischiare di più” un consiglio che porterò sempre con me!

Come ti ha arricchito artisticamente e quali sono stati gli insegnamenti ricevuti nel periodo trascorso al M.A.S. di Milano sotto la direzione della cara amica Susanna Beltrami?

Un altro bellissimo incontro fu quello con Susanna Beltrami. La incontrai in un corridoio alla “Maison de la Danse” a Roma, dopo che lei ebbe visto una mia coreografia dal titolo “Strangers” (che presentavo al Concorso Danzasì) mi disse “io dirigo l’accademia M.A.S di Milano cosa ne pensi di venire a collaborare con un tuo progetto coreografico?” Naturalmente accettai. Lavorare con Susanna Beltrami è sempre stato super costruttivo sia al M.A.S che in DanceHause, lei è una di quelle direttrici che usa il suo background per metterti nella condizione di presentare il tuo lavoro nella forma e nell’estetica ottimale; inoltre sentirla parlare con gli allievi o nelle riunioni insegnanti è come assistere ad un super master culturale universitario. Infatti da lei ho imparato tantissimo. Nel secondo periodo ho lavorato al M.A.S con la direzione di Ludmill Cakalli del quale nutro una grande stima per la sua professionalità e il suo lavoro, una direzione artistica differente ma altrettanto stimolante, lui ha sempre puntato sulla preparazione tecnica di danzatori ad alto profilo, e negli anni della sua direzione è riuscito a diplomare degli ottimi danzatori.

Nella tua carriera hai incontrato grossi ostacoli o tutto è andato sempre come desideravi?

Sinceramente non ho trovato grossi ostacoli, ma penso che il problema maggiore sia nella gestione da parte delle istituzioni della nostra categoria (danzatori, coreografi, insegnanti, scuole) che da sempre è poco protetto. Poco rispetto verso la categoria, zero regole, zero investimenti a favore della danza e per danza intendo tutta la danza, non solo gli enti e le fondazioni ma anche le giovani compagnie emergenti.

Oggigiorno, qual è il tuo rapporto con gli allievi, come ti poni in qualità di insegnante?

Il mio rapporto è sempre stato di collaborazione, in classe mi piace far sentire l’allievo partecipe e non sotto pressione e sicuramente nelle mie lezioni cerco di far prevalere il rispetto e l’educazione. In ogni caso credo vivamente che la nuova generazione di allievi/danzatori debba essere spronata verso una libera e propria espressione artistica e non essere costretta nella sola esecuzione del gesto.

Quanto è importante, per tua esperienza, calcare il palcoscenico nel periodo della formazione?

È importantissima, bisogna che le scuole e le accademie, investano per potere avere oltre ai teatri anche spazi alternativi per poter far esibire i propri allievi.

Quando ha deciso di intraprendere l’arte della coreografia?

Dopo pochi anni che insegnavo la mia propensione per la coreografia era già spiccata, non so come mi sia venuta, probabilmente ce l’avevo dentro da sempre, spostare corpi, trovare spazi, architettare nuove geometrie e dialogare con i danzatori mi è sempre piaciuto e stimolato.

Parlami della tua prima creazione “Wo-man”?

Che bel lavoro emozionante, ho ancora i brividi adesso che sto per parlartene. Volevo raccontare e mettere in scena la forza delle donne un po’ guerriere e un po’ fragili con l’unico interprete maschile il quale fa fatica a trovare una sua collocazione di maschio predominante, quindi soccombe e cerca una sua sensibilità vera, e non quella imposta dagli stereotipi comuni. Lo spettacolo ebbe sei rappresentazioni con due lavorazioni, la prima con gli allievi dell’Accademia M.A.S (diretta da Susanna Beltrami) con protagonista maschile un giovane Paolo Mangiola (allievo dell’Accademia e più avanti solista di Wayne Mcgregor) e la seconda con la scuola “Progetto Danza” di Ravenna con protagonista Silvano Marraffa. Fu uno spettacolo legato a diverse tematiche riguardanti la condizione della donna: repressione, femminicidio e mercificazione del corpo femminile.

Tra i coreografi contemporanei nazionali ed internazionali, della scena attuale, a chi guardi con maggiore interesse?

Sicuramente il Tanztheatre Wuppertal, Nederland Dance Theatre, Batsheva Dance Company, Sasha Waltz, American Dance Theatre, Compagnia Zappala Danza, Aterballetto, sono compagnie che seguo da più tempo, ma mi piacciono tantissimo anche le nuove piccole realtà: MN Dance Company, Esklan della coreografa Erika Silgoner, Royal Flux Dance Company, Matanicola.

Mentre tra i coreografi del grande repertorio?

Matz Ek, Jiri Kyliàn, Pina Bausch, Alvin Ailey, Angelin Preljocaj, Ohad Naharin, Wayne Mcgregor, Dimitris Papaioannou, Sasha Waltz.

Com’è stato lavorare per la Compagnia del Balletto di Roma diretta da Luciano Cannito?

Fu il primo lavoro importante con una compagnia, Luciano Cannito (l’allora direttore artistico) mi chiamò in veste di coreografo per collaborare alla realizzazione di uno spettacolo dal titolo “Quinto Elemento” si trattava di cinque creazioni affidate a cinque coreografi diversi per stile e linguaggio. Lui mi diede sei danzatori tra cui ricordo una giovane Claudia Bosco bravissima danzatrice ora insegnante. Ma la sorpresa grande fu che quando entrai in sala prove trovai l’assistente delle assistenti che era Ranko Yokoyama una persona umile e nello stesso tempo fantastica, ero molto turbato dalla sua presenza mi dicevo “ma l’assistente nonché ballerina di Louis Falco che ha danzato per tutto il globo terrestre come mai mi fa da assistente?” in ogni caso l’educazione e la dedizione al lavoro dei giapponesi sono impareggiabili, fu quella un’esperienza indimenticabile. Per il poco tempo che ho conosciuto Luciano Cannito devo dire che ho trovato in lui una persona molto disponibile e con una grande sensibilità artistica.

Attualmente sei anche direttore artistico di “Erice Danza” e alcune volte ci siamo incontrati in varie Giurie di Concorsi. Cosa ti colpisce e cosa ti aspetti da un allievo iscritto?

Devo dire che Erice Danza è una bella realtà tra i workshop estivi, nasce dieci anni fa ma è già una delle mete più scelte dai danzatori italiani ed europei per studiare intensamente con coreografi della nuova generazione italiana ed internazionale. Io mi occupo della direzione artistica dello stage, cioè cerco di proporre sempre nuovi insegnanti che sappiano dare classi stimolanti ai giovani danzatori, in più Erice è un bel luogo per fare danza e condividere arte e scoprire il magnifico territorio siciliano. L’edizione 2018 sarà dal 23 al 31 agosto. Parlando dei Concorsi è sempre emozionante ed interessante vedere giovani allievi che si mettono in discussione in una competizione di danza. Bisogna però sottolineare il fatto che, chi prepara i ragazzi sia cosciente della qualità del “materiale umano” che mette in scena, senza mandar i ragazzi allo sbaraglio. Per me i concorsi sono una cosa seria, e la prassi dovrebbe essere: la scuola di danza individua un solista o un gruppo che ha quel qualcosa in più degli altri, a quel punto si prepara un lavoro adatto per il loro livello e li si iscrive ai vari concorsi. Invece, più delle volte ci sono scuole che portano allievi non sufficientemente preparati abbassando il livello del concorso, sprecando inutili energie.

Come ti accosti alla preparazione di una coreografia?

Una volta trovata l’idea coreografica faccio una ricerca sul tema da affrontare per esempio: per la coreografia “Casa Kokeshi” presentata nel 2008 al festival Piossasco in Danza, feci una grande ricerca sul Giappone a tavola e su tutte le usanze comportamentali di una famiglia di samurai del 1800, giocando sui dettagli e riscrivendo alcune parti adattandole ai tempi odierni.

Da dove trai spunto per la creazione e che ruolo gioca la musica?

Le idee sono svariate, per anni la creazione la costruivo sentendo il brano musicale, poi sono passato al personaggio (cercavo la persona adatta per quel ruolo) a volte il costume la faceva da padrone e lavoravo affinché la storia girasse attorno ad esso. Generalmente mi ispiro a quello che vedo per la strada cercando di renderlo leggibile. La musica è una ricerca quotidiana di brani, artisti, basi. Cerco sempre di trovare artisti che usino architetture musicali complesse e varie in modo da trovare connessioni tra musica e coreografia.

Si può inventare o meglio sperimentare ancora qualcosa nell’universo della danza? Quanto è importante la “comunicazione del corpo”?

Penso di sì, guardando le performance delle nuove generazioni di danzatori contemporanei si vede che sono sempre più estreme sia nel gesto che nell’intensità, anche nella danza classica è in corso un miglioramento sia muscolare che di prestazione (per l’introduzione di nuovi metodi di allenamento all’interno delle accademie e compagnie) spero solo che questo non vada ad inficiare l’aspetto artistico. Molte volte vedo super virtuosismi attaccati a facce di legno (io sono di quelli che va teatro per piangere o sognare o ridere a crepapelle). Infine guardando i bboy nei vari contest si nota l’evoluzione del corpo che ormai raggiunge performance incredibili e lì c’è li massimo della fisicità unita alla danza. Forse oggi con l’avvento delle nuove tecnologie il linguaggio del corpo viene azzerato, sono convinto invece che il linguaggio del corpo sia un veicolo di comunicazione universale e sempre all’avanguardia.

A quali stili ti senti più affine e qual è la danza che ami maggiormente in veste di spettatore?

In generale sono un onnivoro della danza, spazio dal “Lago dei Cigni” all’istallazione di danza contemporanea ai contest di Hip Hop. Ma gli stili a cui mi sento più affine sono il modern, il contemporaneo, l’Hip Hop, il Breaking e il Teatro Danza.

Termino con una domanda d’obbligo… una tua definizione per dipingere l’arte della danza in ogni suo stile?

Penso di non essere in grado di catalogare la danza, tutti gli stili hanno un loro perché. Dico sempre ai miei allievi: quando andate a teatro pensate d’essere al cinema se il film vi è piaciuto o ha smosso la vostra sensibilità in negativo o in positivo il regista ha fatto centro, così è anche per la danza. Grazie un abbraccio!

Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

Foto: Giuseppe Ippolito

 

 

 

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