
A due anni dalla scomparsa di Marinel Stefanescu, il Teatro Valli di Reggio Emilia è tornato a farsi luogo di memoria, celebrazione e rivelazione con una serata che più che un galà si è rivelata un atto d’amore: L’arte di Marinel Stefanescu. Un titolo semplice, quasi pudico, dietro cui si nasconde un universo complesso, fatto di poesia coreografica, onestà artistica e una visione della danza come missione umanistica.
La manifestazione con la consegna dei Premi intitolati al Maestro, frutto della collaborazione tra Nicoletta Stefanescu, Elena Casolari, Rezart Stafa, il Comune di Reggio Emilia e la Fondazione I Teatri, ha avuto il privilegio della supervisione di Liliana Cosi, compagna d’arte e di vita creativa di Stefanescu, anima di un sodalizio che ha segnato la storia della danza italiana dagli anni Ottanta ad oggi. La sua presenza nel palco di proscenio – figura luminosa, discreta, quasi sacrale – ha aggiunto alla serata una dimensione affettiva impossibile da descrivere senza commozione.
Il Foyer: la pittura come preludio al gesto
Già nel foyer, l’accoglienza del pubblico è avvenuta nel segno di Stefanescu pittore. Una piccola ma significativa selezione di quadri, scelti con cura quasi filologica, ha introdotto agli echi cromatici che nelle sue coreografie diventano movimento, respiro, vibrazione. Lo spettatore è stato invitato ad entrare nel Valli come in un tempio silenzioso, attraversando prima l’immaginario visivo del Maestro per poi incontrarne l’eredità danzata.
Prestigio internazionale sul palco
La serata ha unito passato e presente grazie alla presenza di figure di spicco della danza internazionale, premiate con riconoscimenti alla carriera: un gesto simbolico che lega la memoria di Stefanescu ai percorsi di artisti che, per carisma e dedizione, incarnano la sua stessa idea di eccellenza.
Ivana Mastroviti – la grazia dell’esperienza
Maître de ballet di Aterballetto, Ivana Mastroviti fasciata di nero aderente e lucente ha portato in scena una coreografia dal titolo Birdland creata appositamente per lei da Johan Inger su musica di Patti Smith. Una scelta significativa: Inger, uno dei più originali coreografi contemporanei, ha cucito su Mastroviti un assolo che esalta la maturità interpretativa, facendo vibrare il corpo non più come pura forma, ma come memoria, scrittura e interiorità. Un omaggio implicito alla lezione di Stefanescu, che sapeva riconoscere nel tempo un alleato e non un limite. Mastroviti non si è limitata ad eseguire una frase coreografica, ma l’ha fatta respirare con un controllo del centro straordinario: rallentamenti impercettibili, torsioni addominali che modulavano il peso, transizioni quasi liquide tra un appoggio e l’altro.
L’assolo è sembrato un dialogo tra linee che rallentano e pensieri che accelerano: pura poetica del corpo maturo.
Maria Khoreva – la scuola russa al servizio del mito
La Prima Solista del Mariinsky Ballet di San Pietroburgo, Maria Khoreva, ha incantato il Valli con La Morte del Cigno di Mikhail Fokine su musica di Camille Saint-Saëns. Eseguita in stile Plisetskaya con una purezza tecnica quasi sovrannaturale, Khoreva ha svuotato l’iconico brano di ogni automatismo museale per restituirlo vivo, vulnerabile, liquido. Un cigno non ieratico ma umano, che è sembrato sciogliersi nell’aria del teatro come un ultimo respiro. Il pubblico ha trattenuto il fiato fino al silenzio assoluto dell’ultima nota.
La vera forza della sua interpretazione non è stata la mera precisione, ma la fragilità. Una lezione d’arte drammaturgica nel vocabolario del balletto classico che idealmente ha riportato alla mente la medesima coreografia interpretata magistralmente e infinitamente da Liliana Cosi.
Toromani e Macario – il dramma che arde
Accolti come star amatissime dal pubblico italiano, Anbeta Toromani e Alessandro Macario hanno presentato il passo a due da Carmen su musica di Bizet, nella celebre coreografia di Amedeo Amodio (presente in platea). L’intensità interpretativa, la chimica scenica e la precisione tecnica hanno reso l’esibizione un nodo di passione, gelosia e destino, capace di incendiare la platea. È la danza che entra nella carne, che vibra e colpisce: quella che Stefanescu amava. Toromani e Macario hanno esposto l’anatomia del conflitto. Il loro partnering è solido, sicuro, quasi chirurgico nella gestione dei passaggi aerei, ma ciò che colpisce è la teatralità asciutta: sguardi che tagliano, pesi che si scambiano come coltelli, spostamenti del baricentro che raccontano una storia senza bisogno di pathos esteriore.
Un’esecuzione che rimette il dramma nel corpo e non nelle intenzioni.

Il “Nuovo Balletto Classico”: l’eredità viva del Maestro
La parte più emotivamente forte della serata è stata dedicata alle coreografie dello stesso Marinel Stefanescu, riproposte e custodite grazie a Rezart Stafa, interprete e depositario sensibile del suo lascito.
Passeggiando su musica di Chopin
Marinel Stefanescu trasforma il gesto in un movimento che dall’esterno conduce verso l’intimo. La coreografia, eseguita da Rika Sugimoto, diventa un tempo sospeso, in cui lo sguardo si apre ai dettagli del mondo e, allo stesso tempo, alla propria dimensione più profonda. Ogni passo è un momento per ascoltare, osservare, ritrovare un equilibrio. Stefanescu mette in luce come la quotidianità, se osservata con attenzione, possa diventare luogo di rivelazioni, un’occasione per riconnettersi con ciò che spesso passa inosservato. Non è solo muoversi nello spazio, ma riscoprire il mondo e sé stessi con un’attenzione più autentica.
In attesa del nuovo tempo nelle sonorità di Brahms
Un titolo che sembra un presagio, un dialogo postumo tra il Maestro e il presente. La coreografia, intrisa di sospensioni e ripartenze, disegna una tensione verso ciò che ancora può accadere. Il giovane ensemble – composto da Maria Igonina, Mikoto Matsuura, Giulia Merola, Marika Morra, Sarah Nasti, Enxhi Nika, Martina Pagliari, Alice Soncini, Rika Sugimoto, Ana Cecilia Urcichi, Daniel Erchov Zayas, Daniele Garripoli, Devis Masini e Klevis Spaho – gli ha restituito forma con rispetto e slancio. Brahms viene filtrato attraverso il respiro, apparendo come un trattato sulla sospensione. Stefanescu usa la musica come un campo magnetico: entrate e uscite si dilatano, le diagonali si scompongono, le dinamiche di accelerazione e decelerazione trasformano lo spazio in un luogo di premonizione.
La tecnica accademica qui è un veicolo, non un fine: il virtuosismo è interno, nella qualità del movimento, non nell’altezza del salto.
Al chiaro di luna con Adela Mucollari e Lurdi Dodgjini
Dalla Compagnia del Teatro dell’Opera di Tirana, Adela Mucollari e Lurdi Dodgjini interpretano la coreografia di Stefanescu su musica di L. V. Beethoven. Eleganza levigata, controllo raffinato e un lirismo puro: sembrano danzare in un chiarore lunare sospeso, dove la tecnica diventa trasparenza e l’emozione passa attraverso la bellezza del gesto. Mucollari-Dodgjini hanno dato vita ad un duetto in cui la tecnica accademica è levigata fino alla trasparenza.
Le linee non cercano la verticalità estrema, ma una morbidezza che dialoga con Beethoven: un adagio di sostegni silenziosi, spiralizzazioni del busto, arabesques che sembrano nascere dalla colonna vertebrale più che dalle gambe.
Una danza che non mostra, ma rivela.
L’intramontabile “Omaggio a Čajkovskij”
Ancora Stefanescu, ancora la sua capacità di trasformare la partitura in gesto puro. Qui emerge il lato epico del suo stile, quel lirismo solenne e umanissimo che ha caratterizzato molte sue creazioni. Eccezionalmente Rezart Stafa danza come se parlasse con il Maestro, come se dialogasse con un’assenza più presente di molte presenze. Al suo fianco gli ottimi Mikoto Matsuura, Giulia Merola, Alice Soncini, Rika Sugimoto, Ana Cecilia Urchici. Un brano che rivela il lato sinfonico della poetica di Stefanescu. Qui il Maestro sembra cercare un punto d’incontro tra la plasticità classica e la teatralità musicale del grande repertorio.
Stafa ne è interprete ideale: pulizia dei lineamenti, equilibrio tra impulso e controllo, una musicalità che diventa quasi vocale.

Una serata guidata con gentilezza e intelligenza
La conduzione di Elena Casolari e Giuliano Mastriforti è stata morbida, attenta, mai invasiva. Hanno accompagnato il pubblico attraverso la complessità del programma svelando aneddoti, restituendo profondità al ricordo del Maestro senza nulla concedere alla retorica.
La danza che resta
L’arte di Marinel Stefanescu non è stato soltanto un tributo, né semplicemente un gala. È stato un rito collettivo in cui la danza ha fatto ciò che le riesce meglio: riconnettere, trasformare, consolare. Nel Teatro Valli, quella sera, Stefanescu non era un’ombra del passato, ma una forza viva:
nei quadri del foyer, nei passi degli interpreti, nei ricordi di Liliana Cosi, negli sguardi delle nuove generazioni di danzatori.
Un rito di trasmissione che ha ricordato quanto la danza, nella sua essenza, non è ciò che vediamo: è ciò che rimane quando il gesto è finito. Al Valli si è percepita la verità più profonda del Maestro: che la danza non appartiene al passato, ma a chi ancora la fa risuonare.
Un uomo non muore finché la sua arte continua a danzare. E qui, più che mai, Marinel Stefanescu ha danzato ancora.
Michele Olivieri
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