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Un tuffo nell’800 con la Paquita scaligera [RECENSIONE]

Il fasto e l’imponenza delle rappresentazioni alla Scala acquistano splendore e rinomanza anche grazie a nuove produzioni come Paquita, dove la purezza delle linee si rivela un aspetto fondamentale della tecnica e dell’estetica applicate alla danza classica. È uno di quei balletti che si era perso nel tempo malgrado possieda forme dinamiche e statiche chiare, precise e armoniose, meglio di molti altri cosiddetti capisaldi. Lacotte nella sua ricostruzione filologica ha plasmato la bellezza contornandola di eleganza, equilibrio, candore e purezza tipiche del periodo romantico e delle grandi protagoniste della scena storica.

Paquita è un capolavoro sotto ogni punto di vista che sprigiona soavità nella totalità dei due estesi atti. Come se fossimo ancora nel 1887 i suoi movimenti non appaiono mai antiquati o polverosi. Altre versioni sono nate negli anni ma questo approntamento è ciò di più vicino a quelle di Mazilier e Petipa: è una cerimonia in onore della danza e questo accade senza alcun momento di calo, da apertura di sipario fino agli applausi finali, i quali sono stati meritatamente scroscianti e ripetuti.

Da notare che è la prima Paquita “a serata intera” ad entrare nel repertorio del Teatro alla Scala che ha precedentemente presentato solo estratti come quello a fine anni sessanta con Carla Fracci, James Urbain, Aida Accolla e Luciana Savignano (con scene e costumi di Enrico D’Assia) nella realizzazione coreografica di Marika Besobrasova da Petipa. In alternanza di protagonisti con altri nomi celebri come quelli di Vera Colombo e Roberto Fascilla. Si ricorda inoltre la Danza Spagnola con gli allievi della Scuola di Ballo scaligera diretti e curati da Anna Maria Prina a metà anni Ottanta presso l’ormai scomparso Teatro Smeraldo di Milano. Oppure sempre per gli allievi dell’Accademia a fine anni Novanta in occasione del Gala per i 185 anni della Scuola di Ballo della Scala (con la presenza della neodiplomata Antonella Luongo, recentemente scomparsa). Estratti visti nuovamente nei primi anni Duemila sempre con gli allievi scaligeri nei costumi di Roberta Guidi di Bagno. Nel 2021 durante la Serata Grandi Coreografi al tempo sotto la direzione di Manuel Legris e ancora nel 2021 nella serata Variazioni di Bellezza ed anche nel terzo Gala Fracci datato 2023. Recentemente durante lo spettacolo istituzionale della Scuola diretta da Frédéric Olivieri al Piccolo Teatro Strehler nel 2025 è stato riproposto il divertissment dalla coreografia di Marius Petipa ripreso da Leonid Nikonov e Tatiana Nikonova (già proposto con successo dagli allievi del Maestro Olivieri in altre occasioni a partire dal 2013). Oggi la Scala può vantare una nuova produzione completa di Paquita in repertorio che restituisce al pubblico del Piermarini un balletto maestoso, stimolante, travolgente che attraverso l’accademismo classico fa immergere nella narrazione grazie ad una armoniosa continuità, sia di tempo che di allestimento.

Paquita fu composta da Ludwig Minkus su coreografie di Joseph Mazilier, in debutto nel 1846 alla Salle Le Peletier di Parigi. Balletto nato per mettere in mostra le abilità della acclamata prima ballerina italiana Carlotta Grisi. Successivamente la coreografia fu modificata da Marius Petipa nel 1881 dopo che i francesi la dimenticarono. Il Grand pas classique è un puro intrattenimento, un gioiello della disciplina tersicorea di circa venticinque minuti di gloriosa danza classica senza sosta, ad altissimo livello dove è difficile persino respirare nell’incalzare dei passi. Per molto tempo questa variazione rimase l’unica traccia di Paquita in Francia. Ciò sino al 2001, quando Brigitte Lefèvre, allora direttrice del Balletto all’Opéra di Parigi, propose a Pierre Lacotte di ridare vita al balletto intero. Lacotte, da minuzioso restauratore e archeologo coreico quale è stato, lo resuscitò, ricostruendo la coreografia nella sua pantomima originale sulla base dello stile romantico dell’epoca. Da notare che mimi e ballerini, nei secoli scorsi, non avevano soltanto l’ardire atletico delle loro fisicità, ma si spingevano a meravigliare il pubblico con l’arte muta attoriale. Ciò avvenne soprattutto nella grande epoca della danza teatrale con l’apparizione della divina Maria Taglioni a cui seguirono Fanny Elssler, Carlotta Grisi e Fanny Cerrito che formarono con la Taglioni il gotha del firmamento coreutico del secolo XIX.

A differenza della maggior parte degli altri balletti dell’epoca, che includevano elementi soprannaturali, tale titolo è ambientato nel mondo reale. Un balletto che visto nell’ottica dei suoi protagonisti, dello stile coreografico, dell’interpretazione degli esecutori, nei colori dei costumi e delle scenografie restituisce appieno lo spirito e il gusto di un’intera epoca. Limpido esempio iconografico del Balletto nell’Ottocento.

La trama si dipana in Spagna, nella provincia di Saragozza, durante l’occupazione napoleonica. Rapita dagli zingari durante l’infanzia, Paquita è una giovane donna che riesce a salvare la vita di un ufficiale francese, Lucien d’Hervilly, bersaglio di un macabro complotto ordito dal governo spagnolo e dal capo degli zingari, che vogliono assassinarlo. Paquita scopre in conclusione di essere nobile di nascita e di poter quindi sposare l’ufficiale, che è sempre più attratto dall’esotica zingara.

Nel primo atto una nota di merito va indirizzata a Darius Gramada (nel passo a tre) che ha rubato la scena con i suoi splendidi assoli. Nel secondo atto la Mazurka dei bambini è stata adorabile, con i piccoli allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala diretti da Frédéric Olivieri (nella doppia veste di Direttore anche del suo lodevole Corpo di Ballo) che si sono conquistati il plauso e l’affetto del pubblico grazie ad una preparazione decisa e ad una ottima tenuta visto anche il considerevole tempo di esecuzione.

In un vecchio testo, a riprova della formazione dei futuri ballerini scaligeri, si legge che “(…) la famosa Accademia ai tempi situata nel fabbricato della Scala possedeva due vaste sale destinate al ballo e al perfezionamento, con declivio uguale a quello del teatro, affinché gli allievi si avvezzassero a danzare sopra un piano inclinato. Gli allievi erano obbligati ad indossare un vestiario uniforme, tutto bianco, e tagliato in modo da non recare il minimo impaccio alle movenze del corpo. La scuola era divisa in tre classi: nella prima si apprendevano i principi e gli elementi del ballo, nella seconda si studiavano i primi elementi della mimica e nella terza si ricevevano le ultime nozioni che costituivano la scuola di perfezionamento. Vi si imparavano i vari generi del ballo, adattando ad ogni allievo quello che più e meglio conveniva alla sua figura e alle sue disposizioni naturali. Si facevano eseguire altresì soliloqui, dialoghi, scene e perfino atti interi di ballo onde ammaestrare gli allievi in tutte le più difficili manifestazioni dell’arte mimica. Gli allievi erano obbligati a prendere parte agli spettacoli della Scala e da questo costante intervento è derivata la gloria tradizionale della Scala, che ha sempre vantato, giustamente, un corpo di ballo il più bello e numeroso di qualsiasi altro teatro del mondo. A fine Ottocento le due grandi scuole di Parigi e di Milano rivaleggiavano nel produrre e dare al teatro i loro fiori più belli grazie al duro lavoro”.

Assistendo alla rappresentazione e osservando in particolare il corpo di ballo femminile non si può non pensare alle graziose fanciulle agili, sorridenti, avvolte in splendidi costumi, illuminate dalle sfolgoranti luci attraverso lo splendore teatrale del Piermarini, come se stessero vivendo in un sogno di totale spensieratezza.

Nel ballo finale, Paquita (Martina Arduino) e d’Hervilly (Timofej Andrijashenko), hanno deliziato grazie ad uno smisurato sfoggio di virtuosismo. La coreografia è certamente piena di difficoltà, ma entrambi i ballerini le hanno superate senza problemi. 

Arduino è stata squisita in ogni sua scena. Ogni passo e ogni movenza sono stati eseguiti con una sicurezza ed una eleganza sorprendenti, senza mai perdere la posa o il sorriso. Martina possiede una personalità graziosissima, viso bello e sguardo poetico, la sua danza è vivace e attraente. Tanto che anche il suo valore di mima si è rivelato pari alla bravura di danzatrice.

Dal canto suo Timofej Andrijashenko infonde prova di duttilità, di nuova maturità, di senso della misura, di adattamento come si conviene ad un contemporaneo danseur noble capace di distinguersi per grazia, eleganza, bellezza e tecnica avallata da un’aura di raffinatezza, di forza virile, e ciò sia nell’aspetto fisico che nel portamento. 

La coreografia di Pierre Lacotte è abbagliante, così come i costumi di Luisa Spitanelli e l’Orchestra del Teatro alla Scala diretta da Paul Connelly che ha riproposto le piacevoli musiche di Edmé-Marie-Ernest Deldevez e Ludwig Minkus (nella revisione e completamento di David Coleman).

Il lavoro di Lacotte permette di apprezzare una vasta gamma di passi tutti riuniti secondo regole, canoni e codici di antica memoria. Ai tempi della ricostruzione, il coreografo si avvalse di autorevoli personalità come Ghislaine Thesmar, Laurent Hilaire, Lionel Delanoë e Véronique Doisneau in qualità di collaboratori al repertorio e di Patrice Bart nel ruolo di maître. Nella nuova produzione della Scala qui recensita alla quarta rappresentazione (martedì 17 giugno 2025) figurano alla ripresa coreografica il danseur étoile del balletto dell’Opéra di Parigi Jean-Guillaume Bart e Gil Isoart già solista dell’Opéra sotto la direzione di Rudolf Nureyev ed étoile del Ballet national de Nancy et de Lorraine sotto la direzione di Pierre Lacotte.

La ricostruzione del maestro francese è un minuzioso lavoro di cucitura che unisce le tracce di Mazilier a quelle di Petipa arricchendole con il proprio metodo plasmato dalla Scuola francese. Al tempo del debutto, a metà Ottocento, il romanticismo andava di pari passo con l’esotismo e la curiosità verso altre culture. La scelta per Paquita cadde sulla Spagna al tempo delle invasioni napoleoniche. Zingari, generali e gente del popolo sfilano in scena. Le pantomime sono precise ed evidenti. I disegni per costumi e scenografie di Luisa Spinatelli fanno da decoro in maniera impeccabile in tandem all’illuminotecnica firmata da Andrea Giretti.

Per il corpo di ballo femminile ammiriamo affascinanti tutù, corpetti e abiti al polpaccio in tonalità mélange tra rosa, grigio e marrone. Martina Arduino possiede una tecnica squisita, il virtuosismo è accentuato e fluttuante, la sua Paquita è ricca di emozione ed espressività. Timofei Andrijashenko restituisce un Lucien bello e conquistatore e i salti mozzafiato danno la cifra della costante preparazione. Marco D’Agostino interpreta Iñigo con fare guascone. Da segnalare inoltre per rigore Maria Celeste Losa, Gaia Andreanò, Alessandra Vassallo, Massimo Garon, Edoardo Caporaletti, Chiara Borgia, Domenico Di Cristo, Christian Fagetti, Camilla Cerulli, Agnese Di Clemente, Marta Gerani, Vittoria Valerio, Asia Matteazzi, Giordana Granata. In Lacotte non è primaria la drammaturgia bensì la ferrea tecnica, come si è potuto pienamente constatare, e al pari di Rudolf Nureyev aggiunge difficoltà su difficoltà, richiedendo massima concentrazione e forte resistenza. In aggiunta c’è la pantomima che non risulta mai noiosa quando viene eseguita a buon livello.

Lacotte è stato l’artefice che ha portato ad un lavoro particolarmente importante nella storia della tecnica, riuscendo a colmare una forma d’arte che oggi è ben viva nel richiamo di un folto pubblico, come si è visto nelle rappresentazioni al Teatro alla Scala con protagonista la commendevole Compagnia diretta da Frédéric Olivieri, dimostrando quanto il fascino di un’epoca passata possa ancora essere l’imprescindibile base della modernità. Assicurando inoltre al Balletto quell’espressione dei sensi che regnerà su essi finché ci sarà chi la tramanderà con onestà, passione e competenza.

Michele Olivieri

Foto di Brescia e Amisano © Teatro alla Scala

www.giornaledelladanza.com

© Riproduzione riservata

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