Il più celebre balletto dedicato a Nijinsky, andato in scena nel 2017 presso l’Hamburg State Opera con la regia di Thomas Grimm porta la firma coreografica di John Neumeier. La sua danza è una lucida pennellata, le forme e l’uso dello spazio si sviluppano espressivamente in crescendo, trasformando pagine di vita in sculture viventi che poggiano sulla fragilità dell’animo. Un corpo vivido, un’architettura che ha definito i limiti della follia, i tormenti, la guerra, la pazzia, i silenzi, i fantasmi, le costrizioni umane. Le inquadrature, come in un film, tratteggiano nettamente il personaggio di Nijinsky dove il tormento viene rivissuto mediante flashback evocativi in cui i danzatori illuminano le zone oscure della mente, tamponando le sfumature del male oscuro. Il ballerino protagonista si fonde in totale simbiosi con Nijinsky descrivendo l’azione col pensiero, attento al gesto, al suo valore, ai suoi significati, ai suoi modi. Lo spettacolo, diventato negli anni un cult, rimane ad oggi opera magistrale nel racchiudere i sentimenti e i deliri di uno dei più grandi ballerini di tutti i tempi, il cuore e l’anima dei Ballets Russes, narrati da Neumeier con ritmo compulsivo e incalzante, a tratti poetico e malinconico, spingendo lo spettatore più empatico ad interiorizzarsi con uno degli artisti più idolatrati, un danzatore di Dio. La sua storia d’amore sulla barca con la futura moglie viene concepita attraverso i movimenti del Fauno sulla donna, trasudando il piacere. La realtà supera la fantasia in un realismo così intenso da diventare commovente. I costumi e le scene furono ideati da John Neumeier con un uso parziale dei disegni originali di Léon Bakst e Alexandre Benois. La vita di Nijinsky ha ispirato John Neumeier sin da giovane e questo suo balletto si offre come “una biografia danzata dell’anima, composta da sensazioni e stati”. La narrazione si svolge nell’ultima esibizione di Nijinsky, avvenuta il 19 gennaio del 1919 presso la sala da ballo del “Grand Hotel Suvretta House” di St. Moritz, in Svizzera, intraprendendo un viaggio sulle vestigia di ricordi e delusioni, immergendo l’astante nel mondo visionario di Nijinsky. Tutti e tre gli aspetti – il ballerino, il coreografo e l’uomo – costituiscono il punto di partenza per la creazione di Neumeier che già nel 1979 aveva presentato un breve spettacolo di danza dal titolo Vaslav. Il coreografo riesce a scorgere con lucidità l’essere creativo di Vaclav Nijinsky rivelando appieno la crudeltà del suo tempo e la conseguente sofferenza. Il balletto inizia lentamente, quasi per caso, la gente si raduna, chiacchiera, in attesa di vedere Nijinsky ballare in quella che sarà la sua ultima esibizione: danza nella sua follia, prima da solo in maniera intima e poi selvaggiamente in un crescendo figurativo dove risalta l’entità ingabbiata dalla memoria. La storia irrompe, il passato di Nijinsky inizia a tormentarlo e il balletto di Neumeier fa di questa follia latente che ritorna prepotente una passerella sul passato artistico, sul dolore, sulla gloria, sull’amore e sugli amanti. In un colpo solo alcune immagini iconiche della danza di Nijinsky riemergono con nuova luce, figurazioni che hanno resistito nel tempo e sono ben impresse nell’immaginario di ama l’arte coreutica. I costumi visti in molte fotografie e le pose in Shéhérazade, Le spectre de la rose, Après-midi d’un Faune, Petruška e Jeux ma anche l’uomo e il suo lavoro, la sua arte e il suo essere sensuale agli occhi del mondo. Le persone che conosceva e amava, la guerra di cui soffriva sono così concatenate che diventano una cosa sola. È importante notare che Neumeier non si piega mai nel suo balletto all’imitazione, la sua è una danza teatrale pensata con intelligenza, nulla appare emulato ma semplicemente rappresentato con rispettosa veridicità. La musica alimenta le emozioni grazie alle partiture che lo stesso Nijinsky aveva impiegato nelle sue opere più famose (Frédéric Chopin, Nikolaj Rimskij-Korsakov, Dmitri Šostakóvič, Robert Schumann).
Un’altra produzione con il medesimo titolo Nijinsky la troviamo con successo affidata a Marco Goecke, coreografo dalla brillante carriera, che ha legato il suo nome a due grandi compagnie europee il Balletto di Stoccarda e il Nederlands Dans Theater. Goecke ha deciso di confrontarsi con il grande genio della danza del XX secolo che ha stravolto le regole della tradizione del balletto. “Da tempo, spiega Goecke, pensavo alla storia di Nijinsky per un balletto a serata intera. Quando Eric Gauthier me lo ha proposto, ho subito accettato. Non si tratta solo di una vita singolare, ma della vita di un danzatore e coreografo, quindi un soggetto a me vicino. Non ho pensato ad un balletto narrativo in senso tradizionale: io sono un coreografo “di passi” e amo mantenere una mia visione fatta anche di libertà, astrazione, visionarietà. Non sono interessato a riprodurre le sontuose atmosfere scenografiche dei Ballets Russes, piuttosto a generare bellezza dal movimento e dall’aspetto emozionale che esso può scaturire.” Il Nijinsky di Goecke ha tolto gli orpelli per focalizzarsi sulla danza, arte della perfezione, pura ed accattivante. L’esistenza di Vaclav Nijinsky si sviluppa in dieci quadri: dagli affetti avuti e mancati, alla bruciante ascesa artistica fino al declino della malattia che ha portato la sua mente ad offuscarsi nel delirio fino a trovare pace nel disegno. Il balletto di Goecke è accompagnato dalle musiche di due “Concerti per pianoforte e orchestra” di Frédéric Chopin e dal Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy e dal canto di un coro femminile russo. Nei panni del geniale, folle ed umanissimo Nijinsky uno straordinario interprete su tutti: l’italiano Rosario Guerra per la “Gauthier Dance Company”.
Celebre l’omaggio a Nijinsky nello spettacolo Letter to a man ideato dalla coppia Mikhail Baryshnikov e Robert Wilson: due icone viventi dello spettacolo, maestri universalmente riconosciuti della danza e del teatro, i quali si sono incontrati per narrare le vicende di Vaclav Nijinsky mediante i suoi “Diari”. Letter to a man ha ricostruito e svelato la mente frammentata del grande artista russo di origine polacca, seguendone il percorso umano e professionale dagli esordi fino all’inesorabile discesa verso la follia. L’abilità dell’allestimento e dell’interpretazione hanno conservato per i settanta minuti della messinscena, espressioni a regola d’arte, una narrazione regolata da procedimenti di massima avanguardia e tecnologia, fondata sull’esperienza e complicità dei due protagonisti, regista e interprete. Letter to a Man presenta la bellezza del teatro in tutto il suo “rito”. Una produzione in cui traspare l’assoluta estetica scenica, diretta a comunicare i sentimenti avendo come tramite i sofferti “Diari” trasformati in “lucide pennellate” sulla tela. Mikhail Baryshnikov ha espresso forme plastiche, giocando con la fisicità e la mimica in un crescendo, trasformando “pagine e inchiostro” in una scultura di rara bellezza, sottolineando l’importanza dell’aspetto intellettuale dell’artefice. Da una parte il sapere accademico, dall’altra la fragilità umana. Le inquadrature, come in un film, delineano nettamente il personaggio di Nijinsky: la regia di Bob Wilson (con la preziosa collaborazione di Lucinda Childs) ha donato a Misha un primissimo piano in cui l’aspetto tormentato del ballerino è rivissuto in quadri straordinari e toccanti, passaggi commoventi, intenzioni suggestive. La follia di Nijinsky con le ombre di Diaghilev hanno indicato la condizione psichica che, ancora oggi, identifica la sua totale mancanza di adattamento nei confronti della società. Baryshnikov si fonde in totale simbiosi con Nijinsky riuscendo a descrivere l’azione col movimento del pensiero, attento al gesto, al suo valore, ai suoi significati, ai suoi modi. Lo spettacolo rimarrà negli annali del teatro.
Come non citare Nijinskij Il Matto di Lindsay Kemp andato in scena per la Stagione del Teatro alla Scala presso il Teatro Nuovo di Milano nel 1983, con Lindsay Kemp nel ruolo di Nijinskij, François Testory (La sua giovinezza), Michael Matou (Il Mago), David Haughton (Il Poeta), Naomi Sorkin (La Ballerina), Cheryl Heazelwood (La Sposa), The Incredible Orlando (Il Moro), Christian Michaelsen, Kevin L’Anglais, Javier Sanz (I giovanotti). Lo spettacolo era abbinato ad un’altra creazione di Lindsay Kemp (assistente alla coreografia e alla regia David Haughton) dal titolo Façade su musica di William Turner Walton con le scenografie e i costumi di Emanuele Luzzati. Da uno scritto di David Haughton risalente ai tempi del debutto “Diaghilev e Nijinsky sono stati da sempre figure preminenti nel pantheon degli eroi che hanno influenzato Lindsay Kemp. In particolar modo Nijinksy, non solo reputato il più grande il più magico di tutti i ballerini, ma anche interprete dell’intrinseca follia, simbolo immensamente potente e duraturo. Nel 1969 Lindsay rappresentò, al Teatro Mayfair di Londra, un assolo intitolato Frammenti dal diario di Vaclav Fomič Nižinskij usando dei brani incisi dal diario che Nijinsky scrisse in quelle poche settimane cruciali durante le quali oscillò sull’orlo della pazzia, prima di entrare nell’isolamento di un silenzio durato quarant’anni. Nonostante le buone critiche e l’accoglienza favorevole del pubblico il pezzo non fu replicato; eppure il progetto Nijinsky continuò ad occupare la mente di Lindsay e sette anni più tardi lui ed io cominciammo ad abbozzare una nuova stesura, basata sempre molto sul diario parlato, nella quale dovevano apparire due Nijinsky e Diaghilev doveva essere interpretato da Sir Anton Dolin, egli stesso un successore di Nijinsky nei Balletti Russi e nell’affetto di Diaghilev. Quello che soprattutto ci affascinava era la possibilità di associare la follia di Nijinsky alla sua esistenza precedente, di fondere e comparare i suoi grandi ruoli drammatici con la propria situazione e mostrare come la sua arte tragicamente rifletteva la sua vita. Per questo progetto, con l’importante collaborazione di Carlos Miranda (così come accadeva nei Balletti Russi, il nostro metodo di lavoro non solo prevede che il compositore ci fornisca la musica ma faccia parte dell’immaginazione creativa) ci siamo sempre più allontanati dall’idea di prospettive alternate e avvicinati a quella di vedere tutto attraverso gli occhi di Nijinsky, così vita ed arte non sono soltanto riflesso l’uno dell’altra, ma indistinguibili tra loro. Tutte le identità quindi sono confuse: non è chiaro se le figure che si vedono sono ospiti di un manicomio, gente realmente esistita nella vita di Nijinsky o personaggi di balletti che egli interpretò. In altre parole, così come poteva essere nella mente de Il Matto non c’è più separazione tra questi livelli di realtà e nemmeno tra loro ed il quarto livello: quello di Lindsay Kemp, la sua compagnia e le loro immagini. Così il pubblico non sa con precisione se, per esempio, la Ballerina è Tamara Karsavina, o una folle che si immagina di essere la Karsavina, o un’ospite del manicomio che Nijinsky immagine essere la sua partner in Petrushka, o semplicemente una sognata estensione della sua propria personalità. Questa maniera di vedere le cose può essere meglio illustrata dal modo in cui abbiamo usato Petrushka, la cui storia riflette così stranamente quella di Diaghilev e Nijinsky. Così la neve di St. Moritz dove Nijinsky vagò quando ebbe inizio la sua pazzia è legata alla neve che c’è nella fiera in Petrushka, e la cella del manicomio è la stessa in cui Petrushka viene rinchiuso dal burattinaio. E naturalmente il personaggio che abbiamo chiamato il Mago è al tempo stesso il dottore del manicomio, il burattinaio ciarlatano e Diaghilev. Altre figure sono ancora meno specifiche e più complesse: il Poeta ad esempio può rappresentare in parte il Nijinsky che ha scritto il diario, la voce di Dio che Nijinsky sentiva in sé, il misticismo del tolstoiano Kostrovksy che ha tanto influenzato Nijinsky, o anche le radici russe dalle quali Nijinsky fu così tagliato fuori e pure il torturato spirito del Romanticismo. E così egli è spesso il contrario della Giovinezza, che rappresenta Nijinsky come il giovane danzatore che scala le vette della fama internazionale, la sensualità e l’erotismo che erano una parte così preminente della sua personalità artistica, il Fauno. Nel nostro sforzo di collocare la produzione in tale atmosfera, sapevamo dall’inizio che la musica avrebbe dovuto avere una gran parte di responsabilità per stabilire punti di riferimento, per identificare e descrivere ognuno dei personaggi e per dare una forma fisica al groviglio di identità e realtà nella mente di Nijinsky. Doveva, quindi, per forza riferirsi specificatamente agli spartiti dei balletti che Nijinsky aveva danzato come La Sagra della Primavera, Le Spectre de la Rose, L’après-midi d’un Faune, Petrushka, Scheherazade e Giselle ma allo stesso tempo dovevamo trovare un’unità di stile in cui questi riferimenti melodici potevano essere alterati ed armonizzati con la musica più astratta della follia di Nijinsky. È chiaro, quindi, che se una sola parola doveva essere usata per descrivere il tono e la struttura di questo lavoro, questa doveva essere follia e siamo stati sempre pienamente coscienti del rischio che accettavamo: è così facile che la follia sia descritta a teatro in maniera isterica, falsa, indulgente e relegare il ritratto di Nijinsky senza troppe preoccupazioni in un mondo di camicie di forza, di trattamenti elettro-shock e di lunatici di grande effetto. Eppure abbiamo accettato questo grande rischio. È quindi importare capire che cosa intendiamo significare per follia in Nijinsky il Matto e come l’abbiamo usata. Prima di tutto deve essere ben chiaro che non cerchiamo di esplorare le condizioni cliniche della schizofrenia e ancor meno il caso particolare di Nijinsky, o descrivere l’interno di un manicomio. Il manicomio e la pazzia sono espedienti stilistici, sono gli idiomi attraverso cui cerchiamo di esprimere un certo tipo di linguaggio teatrale, di creare la nostra propria poesia… e ciò non deve essere confuso con frasi idealistiche come la pazzia è poesia o la poesia è pazzia. Ogni produzione ha diritto al proprio linguaggio teatrale e la nostra vuole esprimersi attraverso una lingua largamente astratta di ritmi ed immagini, come in sogno. Questo è teatro per il teatro – per così dire – come la pittura è per la tela o la musica per l’esecuzione del momento; non si deve pensare che stiamo per fare una relazione sulle origini delle immagini (non più di Mozart che fa relazioni sulla costruzione di pianoforti)… stiamo, sì, facendo una relazione, ma di sogno. Perché dunque trascinare Vaclav Fomič Nižinskij e Serghei Diaghilev in tutto ciò? Perché il significato delle immagini del sogno deve in qualche modo essere accessibile allo spettatore, ed il fatto che la musica, i caratteri reali e fittizi (Petrushka, Diaghilev ecc.) sono dei punti di riferimento ben noti nel bagaglio culturale odierno funziona come una specie di scorciatoia che ci permette di intrecciare, coordinare e trasformare significati senza dover prima laboriosamente stabilirli e cominciare quindi da capo, per così dire. In un certo senso, perciò, questo Nijinsky potrebbe essere chiunque, ogni sognatore colto sulla linea del fuoco tra sogno e realtà o tra i suoi vari aspetti, e abbiamo sfruttato il caso particolare di Nijinsky per procurarci uno scenario per un poema onirico. Ma in un altro senso il vero alito di vita di questa produzione ha – paradossalmente – un alleato proprio nella presenza di Nijinsky sentita come persona, o come spirito di una persona. Egli è presente nel fascino, nel timore reverenziale e nella tenerezza che ha inspirato in Lindsay Kemp e nei suoi collaboratori. È presente in scena nella sottile magia operata da Kemp nella profonda identificazione personale con quella versione mitologizzata di Nijinsky che è poi un aspetto di sé stesso. Nijinsky rappresenta quella particolare umanità che àncora l’immaginazione e previene il suo fluttuare via in un cielo d’astrazione. Egli sorvola la produzione come lo spettro di Petrushka. Il Nijinsky di Nijinsky il Matto è quindi sia il Nijinsky vero che quello irreale, così come nel suo diario egli scrive io non sono più il Nijinsky del Balletto Russo… sono il Nijinsky di Dio. Egli è anche Il Matto inteso come la carta dei tarocchi, che è un’altra prefabbricata fonte di immaginazione a cui abbiamo attinto. Il Matto che è creazione e innocenza, sete mistica e coraggio che arriva all’autodistruzione e che il Mondo – vedendolo solo dal di fuori – chiama matto per autodifesa. Ecco perché abbiamo la figura di Diaghilev il Mago. La carta dei tarocchi Il Matto è in se stessa una delle più concise e potenti espressioni di quello che Nijinsky simbolizza, e questa produzione si offre allo spettatore allo stesso modo delle carte dei tarocchi: come una serie di immagini la cui relazioni con i profondi significati psicologici e simbolici non è rigidamente prestabilita ma attende di essere definita dall’immaginazione personale dello spettatore: questo spettacolo, quindi, potrà rappresentare molto o poco, a seconda di quanto voi stessi avrete voglia di sognare.
Importante lo spettacolo in occasione del centenario della nascita di Nijinsky andato in scena al Teatro San Carlo di Napoli l’11 aprile 1989 con il titolo Nijinsky, memoria di giovinezza. Ideato da Beppe Menegatti (su testo di Domenico De Martino), con regia dello stesso Menegatti, coreografie di autori vari, interpreti Carla Fracci, Ekaterina Maximova ed Eric Vu-An (scene e costumi di Luisa Spinatelli).
Da ricordare inoltre lo spettacolo Nijinsky. Reminiscenze di un pazzo con Carla Fracci e Gheorghe Iancu per la regia di Beppe Menegatti, andato in scena in debutto al Piccolo Teatro Grassi di Milano nel giugno del 2000. Il testo venne realizzato da Cosimo Manicone attingendo dai Diari di Nijinsky e da I Diari di Jean Cocteau. Sul versante coreografico troviamo alcuni pezzi storici a firma dello stesso Nijinsky, di Jean Coralli e di Jules Perrot, con coreografie inedite create in esclusiva per lo spettacolo da Gheorghe Iancu. Sul versante musicale vennero adottate le partiture di Stravinsky, Debussy, Chopin, Schumann, Adam, Satie. I ruoli furono così interpretati nel seguente ordine: Il Pazzo (Gheorghe Iancu), L’impresario (Ludwig Durst), Lo studente (Cosimo Manicone), La moglie (Carla Fracci), Le grandi ballerine Lidia Nelidova e Tamara Karsavina (Carla Fracci), La figlia (Martina Baglioni), Il pianista (Francesco Sodini), Il violinista (Massimo Nesi) con la Compagnia Italiana Balletto.
Un altro balletto ci riporta a Nijinsky, Clown de Dieu su ideazione e coreografia di Maurice Béjart, suddisivo in due parti con musica di Pierre Henry e Čajkovskij, andato in scena nel 1971 per il Ballet du XXe Siècle al Forest National di Bruxelles, con interpreti Jorge Donn, Suzanne Farrell, Daniel Lommel, Paolo Bortoluzzi, Victor Ullate, Jörg Lanner, Jaleh Kerendi e Catherine Verneuil. Dalle notazioni del diario di Nijinsky si comprende come la creazione affresca un ritratto del grande artista dei Ballets Russes alla ricerca della verità, dell’amore e di Dio, con riferimenti ai suoi quattro ruoli più celebri: Spectre de la rose, Scheherazade, Petrushka, L’Après-midi d’un faune, ruoli raffigurati nel balletto come compagni dello stesso Nijinsky.
Una nuova versione sempre firmata da Béjart, all’epoca definito spettacolo recitato e danzato, vide il balletto Nijinsky, Clown de Dieu completamente stravolto nella struttura rispetto all’originaria messa in scena, rimontato per due soli ruoli, quello del danzatore Jorge Donn e quello dell’attrice Cipe Lincovsky, in prima rappresentazione italiana al Teatro Nuovo di Milano il 23 ottobre del 1990. La versione per sola coppia offriva agli spettatori una dolce malinconia tra tecnica ed espressività con ampollose sonorità, parole, movimenti, brandelli dal diario, dinamiche clownesche ed estratti musicali da Pëtr Il’ič Čajkovskij, Ludwig van Beethoven, Gustav Mahler ed altri ancora.
Ed infine ricordiamo nei primi anni novanta il dramma di David Pownall intitolato La morte di Nijinsky. La pièce ebbe la sua prima nell’agosto 1991 all’Edinburgh Fringe e fu successivamente interpretata dal primo ballerino del Royal Ballet, Nicholas Johnson, anche in una lunga tournée che toccò l’Europa, l’Australia e gli Stati Uniti. Interpretò il ruolo per l’ultima volta nel 2003 sotto la regia di Gillian Lynne al “Linbury Theatre”. La tempestosa storia d’amore tra il leggendario ballerino Nijinsky e il suo mentore Diaghilev rimane ad oggi lo scandalo più noto nella storia del balletto. Ambientato in un manicomio, Nijinsky viene a conoscenza della morte del grande impresario e teme per la propria vita.
Una curiosità ci riporta all’affermazione di Merce Cunningham che disse “Leggere il Diario di Nijinsky è affascinante e insopportabile come guardare un’eclisse permanente del sole”.
Ripensando all’innevato gennaio 1919, tutte queste creazioni coreografiche in omaggio al leggendario danzatore appaiono come un viaggio sulle vestigia amorose e dolorose di quell’ultima apparizione artistica in Svizzera, capace ancora oggi di catapultarci nella sua visione umana e soprattutto creativa. Vaslav Nijinsky impose nuove estetiche, sia a livello tecnico che espressivo, tracciando inedite vie in direzione della danza moderna.
Michele Olivieri
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