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La Danza è speranza: intervista a Damiano Artale

La Danza è speranza: intervista a Damiano Artale

 

Damiano Artale è nato a Siracusa nel 1987. All’età di sedici anni viene ammesso alla “Scuola di Ballo dell’Accademia d’Arti e Mestieri dello Spettacolo Teatro Alla Scala” e si diploma nel 2007. Nella stagione 2007/08 danza nel “Ballet de l’Opéra National du Rhin” a Mulhouse (Francia), in creazioni di W. Forsythe, M. Béjart, J. Godani, L. Childs. Nel 2008 vince il premio Danza&Danza come miglior talento italiano. Dal 2008 al 2013 è danzatore al “Ballet du Grand Theatre de Geneve” (Svizzera) dove danza anche in coreografie di A. Foniadakis, E. Gat, F. Ventriglia, S. Teshigawara, B. Millepied, J.-C. Maillot. Dal settembre 2013 fa parte di Aterballetto.

Caro Damiano, raccontiamo per i nostri lettori com’è nata la tua passione per la danza?

Ho sempre danzato da che ne ho memoria, la passione potrei definirla congenita. Mia sorella maggiore era una majorette a livello agonistico e io all’età di tre anni ero già la mascotte del suo gruppo.


Dopo alcune esperienze in Sicilia sei approdato a Milano alla Scuola di Ballo del Teatro alla Scala. Qual è stato il primo impatto?

Mi sentivo in un film, avevo intensificato gli studi della danza classica solo nei due anni precedenti all’ammissione scaligera (prima mi dedicavo maggiormente al modern, hip hop) e non avrei mai pensato di riuscire ad entrare nella scuola più prestigiosa del Paese. La mia vita è stata piacevolmente stravolta e nonostante fossi solo un adolescente, ero consapevole della mia fortuna.


Perché la scelta di venire a Milano in Scala? Avevi provato ad entrare in altre Accademie inizialmente?

A dir la verità avevo ricevuto un invito per la scuola del Teatro Nuovo di Torino e mi stavo preparando per l’audizione alla scuola del Teatro dell’Opera di Roma la quale si sarebbe tenuta successivamente a quella milanese. Un compagno di studi faceva un tentativo a La Scala e la mia insegnante mi invitò a tentare. Mi presentai in Via Campo Lodigiano a Milano senza troppe aspettative, conscio di non essere il prototipo ideale per una scuola classica. Ma fui ammesso sia alla Scala che all’Opera di Roma. Scelsi quella che per molti è considerata l’eccellenza italiana.


Tu hai vissuto, alla direzione della Scuola, il cambio tra la Signora Prina e il Maestro Olivieri che ti ha portato al diploma. Cosa ricordi in particolare dei loro insegnamenti ed in generale del clima di quegli anni in Accademia?

La direzione Prina mi ha accompagnato per gran parte dei tre anni trascorsi in seno alla scuola del Teatro alla Scala quindi, nonostante mi sia diplomato con il Maestro Olivieri, mi considero facente parte della “vecchia scuola”. Anna Maria Prina è sempre stata “LA DIRETTRICE”. Ci ha trasmesso il rispetto, il senso del dovere e sacrificio. I risultati arrivano se si è disposti ad impegnarsi per far sì che si realizzino e il fatto di frequentare una scuola d’eccezione non ci dava la sicurezza di trovare lavoro una volta fuori. Il Maestro Frédéric Olivieri ha sempre creduto molto nell’importanza di fare esperienza di scena, intensificando il numero degli spettacoli della scuola, ha avvicinato gli allievi al lavoro di “compagnia”. Entrambi i miei direttori continuano a seguire la mia carriera sempre con grande affetto.


Che esperienze hai avuto da allievo sul palcoscenico scaligero e quali emozioni nel calcarlo?

La mia prima volta sul palco del Piermarini la devo all’Aida di Franco Zeffirelli con le coreografie di Vasiliev. La premiere del 7 dicembre sicuramente indimenticabile. Accompagnare Roberto Bolle durante la danza trionfale e seguire la sacerdotessa Luciana Savignano a soli diciotto anni non è cosa da poco. Poter studiare con la compagnia era la cosa che più mi entusiasmava. Iniziavo a credere di essere un vero danzatore.


In quel periodo hai anche lavorato con Francesco Ventriglia e Pompea Santoro. Cosa ricordi di queste due esperienze artistiche?

Francesco Ventriglia, alias “capo”, è un grande maestro, fu uno dei primi a credere in me e gli devo molto a livello artistico e personale. Frequentavo ancora il sesto corso quando mi scelse per “Myth of the Phoenix” al Teatro Smeraldo con Roberto Bolle, Marta Romagna e altri professionisti scaligeri. Da lì continuarono le collaborazioni con “Il mare in catene” presentato alla Biennale Danza di Venezia nel 2007. Danzammo anche insieme un passo a due “Pietas” e mi affidò il suo “Black” che ebbi la gioia di interpretare con Stefania Ballone. La nostra collaborazione continuò anche oltre confine quando creò “Transit Umbra” per il Grand Theatre de Geneve. Un artista sincero dall’energia incontenibile e forte sensibilità. Pompea fu la prima ad affidarmi un ruolo da primo ballerino all’interno di uno spettacolo della scuola. Nei tre anni passati lì avevo fatto esperienze di corpo di ballo ma mai da solista. Quando lei mi scelse per Carabosse nella “Bella Addormentata” di Mats Ek non riuscivo a crederci. Mi cucì il personaggio addosso come un esperto sarto fa con il suo miglior tailleur. Pompea oltre alle nozioni di movimento, tecnica e stile (delle quali è una grande conoscitrice) è andata a scavare alla ricerca dell’artista, riuscendo a farmi salire sul palco con sicurezza e padronanza del ruolo. Io non interpretavo Carabosse, in quel momento lo ero.


Poi hai lasciato Milano e ti sei trasferito in Francia, per una stagione, al “Ballet de l’Opéra National du Rhin”. Come ti ha arricchito il far parte della Compagnia?

Porto con me un bellissimo ricordo del “Ballet du Rhin”. Il mio primo contratto, la mia prima compagnia, le prime tournées. Ero finalmente un professionista. In un solo anno imparai moltissimo perché la compagnia aveva un repertorio che spaziava dal classico al contemporaneo e il direttore Bertrand D’At mi fece studiare e portare in scena anche dei ruoli da solista. Tuttavia dopo aver lasciato Siracusa per Milano, la città di Mulhouse non era il mio rifugio ideale e quando si presentò l’occasione di entrare al “Ballet du Grand Theatre de Geneve”, ne approfittai senza pensarci.


Con quest’ultima realtà hai avuto la possibilità di confrontarti con un vasto repertorio?

Il Balletto del “Grand Theatre de Geneve” è stata la mia casa per cinque anni. Lì ho danzato un repertorio molto vasto, tante creazioni, spettacoli in tutto il mondo e diversi ruoli da Principal che mi hanno permesso di acquisire consapevolezza e maturità artistica.


Come ti eri accostato alla preparazione e al ruolo nel “Romeo e Giulietta” di Joëlle Bouvier?

Romeo è arrivato a soli ventuno anni. Era la mia prima stagione in seno al balletto di Ginevra e non pensavo di poter essere all’altezza del ruolo. Ero il più giovane dei danzatori e sicuramente il più inesperto. Tuttavia credo che Joelle vide in me quell’incoscienza ed ingenuità di cui Romeo ha bisogno. La creazione fu molto difficile ma la sensazione nel danzarlo rimane indimenticabile.


Al di là della danza come hai vissuto in Svizzera ed in particolare a Ginevra? Al di fuori del teatro ti appagava quella realtà?

La Svizzera era sinonimo di sicurezza economica con la conseguente possibilità di effettuare svariate tournée internazionali. Tuttavia in quegli anni i miei affetti erano ancora in Italia e nonostante le agiate condizioni, ero consapevole del fatto che la mia carriera non sarebbe finita a Ginevra.


Nel 2013 la grande svolta, lasci Ginevra e approdi ad Aterballetto? Qual è stato l’aspetto determinante nella scelta di Reggio Emilia?

Lasciai Ginevra perché a venticinque anni avevo accumulato un bagaglio notevole ma per crescere avevo bisogno di mettermi in gioco, riaffermarmi altrove. Lasciando il Grand Theatre il mio primo obiettivo era l’ormai defunta “Cedar Lake” ma non erano disponibili contratti per danzatori. Avevo visto l’Aterballetto al Piccolo di Milano qualche anno prima ed ero rimasto colpito dall’alto livello dei miei attuali colleghi. Non nego che l’Italia mi è sempre mancata e nonostante stilisticamente il repertorio Ater di cinque anni fa fosse ancora “neo-classicheggiante” decisi di provarci perché avevo sicuramente qualcosa da imparare e danzare Bigonzetti richiedeva l’essere sempre in forma.


Un tuo pensiero personale per Cristina Bozzolini e per Mauro Bigonzetti?

Non posso esprimermi troppo su Mauro Bigonzetti perché non ho avuto la fortuna di lavorare direttamente con lui, posso solo complimentarmi dato che tra le sue creazioni ci sono sicuramente dei capolavori che ho avuto il piacere di danzare come “Cantata” e “Rossini Cards”. Cristina Bozzolini è una donna straordinaria. Un direttore poco convenzionale, travolgente ed instancabile. Ama i suoi danzatori e ha un profondo rispetto per il Teatro. Una persona dalla quale non smetterò mai d’imparare. Unica nel suo genere!


Dopo tanti anni ora ritrovi Pompea Santoro alla direzione di Aterballetto?

Sono davvero felice di ritrovare Pompea. Ho molta fiducia in lei e credo possa fare tanto per la compagnia. Ero solo un ragazzino quando ci siamo incontrati la prima volta e sono impaziente di continuare il percorso interrotto dieci anni fa.


Hai avuto la fortuna di lavorare con Jiří Kylián. Qual è l’aspetto più difficile, tecnicamente parlando, nell’accostarsi al suo genio?

Jiri Kylian che per comodità chiameremo “Dio”… Tecnicamente 14’20” è un passo a due molto impegnativo. Sia a livello fisico che tecnico. La tendenza è quella di strafare rompendo il sottile equilibrio necessario per la riuscita del pezzo. Se si è troppo comodi durante l’esecuzione, non si sta lavorando nella giusta direzione. È doveroso rischiare!


Come è nata poi la voglia di metterti in gioco come coreografo?

La voglia di fare coreografia è nata pian piano. Sono sempre stato a mio agio nelle improvvisazioni e la mia mente ha sempre elaborato passi istintivamente su qualsiasi musica. Ho iniziato dando lezioni e trasmettendo ai ragazzi delle sequenze di passi fine a se stesse. Poi in Ater ho avuto modo di creare un primo e un secondo pezzo con dei professionisti, anche se la mia “palestra” sono gli allievi delle scuole con cui collaboro.


Da cosa parti per una tua creazione, quali sono gli aspetti fondamentali che poni in primo piano nella costruzione?

Non parto mai da un’idea precisa. A volte è la musica, a volte i danzatori, altre volte un film, un quadro ecc… Spesso arrivo in sala con un’idea che viene completamente stravolta in creazione. Altre volte preferisco andare in sala “vuoto” e creare con chi mi sta vicino. Non ho ancora il mio “metodo”. Mi piace sfruttare al massimo lo spazio e giocare con diverse qualità di movimento. La musicalità è fondamentale e se il calderone è ben mescolato arrivano anche le emozioni.


Che significato ha per te il “gesto” e il “movimento”?

I gesti sono le nostre parole chiave, i movimenti i nostri racconti. Se non articoliamo le parole nel giusto modo il racconto risulta incomprensibile. Serve armonia.


Da spettatore della danza da cosa sei maggiormente attratto?

Sono attratto da qualcosa che mi sorprenda e mi emozioni. Non sono un grande fan della danza per così dire “concettuale”. Il danzatore deve innanzitutto danzare e se il coreografo è in grado di esprimere il suo concetto in movimento allora osservo volentieri. Oggi ci sono troppi “coreografi” e “danzatori” e per quanto io creda nella libertà di espressione, bisognerebbe un attimo volare bassi ed essere un po’ più autocritici.


Quali sono i coreografi del panorama nazionale ed internazionale verso i quali nutri maggiore attenzione e stima?

Sicuramente Crystal Pyte, Hofesh Shechter, Gabriela Carrizo, Sharon Fridman.


C’è ancora spazio per inventare qualcosa nella danza?

Non so se c’è ancora spazio per inventare qualcosa di nuovo nella danza, forse non è necessario essere innovativi, basta essere sinceri nel creare cercando di mandare il proprio messaggio senza preoccuparsi che sia troppo somigliante quello di X o Y. Veniamo tutti da una formazione, deve essere la nostra forza, non la nostra rovina.


Oltre alla danza quali altre passioni nutri?

Mi piace cucinare, prendermi cura della mia casa e di chi mi sta accanto.


Del grande repertorio classico cosa ami in particolare e perché?

Se dovessi scegliere quattro pezzi vincenti del repertorio classico sarebbero: “Il Lago dei cigni”, “Lo Schiaccianoci”, “Giselle” e il “Don Quixote”. Eleganza, magia, dramma e forza.


Nel ruolo di insegnante qual è l’aspetto che ti appaga di più e cosa ti colpisce in un allievo/a oltre alle doti tecniche e fisiche?

Gli allievi sono assetati di conoscenza. Vogliono scoprire, sperimentare provare e ancora provare. I professionisti siamo spesso dei gran criticoni. Gli studenti sono di mentalità molto più aperta, hanno bisogno di sapere. Sono molto felice quando li vedo lasciarsi andare con massima disponibilità verso qualcosa che magari non sono abituati a fare. Parti con l’obiettivo di insegnare qualcosa e vai via avendo imparato molto anche tu.


Damiano in quale spettacolo hai debuttato in assoluto nelle vesti di danzatore, sia da allievo sia da professionista?

Se escludiamo i never-ending saggi delle scuole private, il mio debutto in assoluto in un vero spettacolo, da allievo, risale ad una “Raymonda” della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala. Da professionista, appena diplomato, “Il mare in catene” di Francesco Ventriglia alla Biennale Danza di Venezia.


Mentre in quelli di coreografo?

La mia prima coreografia è “Migliori” creata per quattro danzatori di Aterballetto sulle “Quattro Stagioni” di Vivaldi nel 2015.


Da piccolo quali erano i tuoi miti del mondo tersicoreo?

Arrivando da un universo “moderno” ho sempre avuto un debole per Erika Silgoner e Giuliano Peparini. Una volta abbracciata la danza classica come non idolatrare Alessandra Ferri, Roberto Bolle e Massimo Murru.


Verso quale repertorio ti senti maggiormente incline?

Repertorio contemporaneo.


A livello personale, la danza ti ha solo dato o ti ha tolto anche qualcosa?

È un perpetuo “do ut des”, per ottenere dei risultati non è permesso risparmiarsi e allo stesso tempo la carriera è talmente breve che sarebbe irrispettoso farlo. Quello del danzatore è un mestiere totalizzante ed il sacrificio è parte del gioco. Siamo fortunati a vivere della nostra passione.


Tra tutti i coreografi con i quali hai lavorato fino ad oggi chi vuoi menzionare in particolare, per affinità o comunque per una gratificazione personale?

Devo molto ad Andonis Foniadakis per la sua frenesia, coordinazione caotica e struggente energia. Quando si danza un suo pezzo l’impegno fisico è estremo e dopo lo spettacolo si è esausti ma più forti.


Qual è lo spirito tra voi danzatori di “Aterballetto”? C’è molta empatia e complicità?

In Aterballetto c’è una bella collaborazione nel lavoro. Non siamo tantissimi il che facilita lo sviluppo di rapporti umani tra colleghi. Complicità ed empatia sono forse maggiormente presenti tra alcuni danzatori piuttosto che con altri. Tutti generosi di professionalità e rispetto.


E volendo dipingere a parole questa prestigiosa realtà nazionale quali sono le parole che meglio le si adattano?

“Aterballetto” è la Compagnia di bandiera che in quarant’anni di storia si è sempre fatta strada anche in campo internazionale, resistendo alle oggettive difficoltà di mercato. Camaleontica, si è evoluta nel tempo mantenendo un alto profilo tecnico e artistico.


Come è vissuta la danza in Sicilia, soprattutto a livello maschile?

Sfaterei questo mito della regione chiusa e bigotta perché così non è più. La Sicilia è un contenitore di talenti. Ci sono delle giovani promesse ed evidentemente dei validi insegnanti. Collaboro con delle scuole dove incontro giovani danzatori (ragazzi e ragazze) pronti a sacrificarsi per la riuscita di un sogno.


Cosa ami della tua terra?

Della mia terra amo…TUTTO! Pregi e difetti. Penso di tornare a vivere in Sicilia una volta appese le scarpette al muro.


In conclusione, qual è il messaggio più nobile che la danza (in tutte le sue svariate sfaccettature) dona agli spettatori?

La Danza è speranza. È ricerca di perfezione quasi sovrumana. È trasporto emotivo dal quale si è piacevolmente travolti. È possibilità di evasione da una quotidianità spesso scomoda. È… sogno!

 

Michele Olivieri

www.giornaledelladanza.com

 

Foto: Alessandro Calvani,

Nadir Bonazzi (in scena con Serena Vinzio)

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